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Draghi, il terzo mandato e il futuro del M5s: perché Di Maio ha rotto con Conte

Di Maio rompe con Conte e fonda un nuovo gruppo parlamentare, Insieme per il futuro. È la fine dell’ipocrisia fra i due, dopo mesi di frecciatine e polemiche. E adesso?
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Come probabilmente già saprete, sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio in vista del Consiglio Europeo, si è consumata la rottura definitiva fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Dopo settimane di frecciatine a mezzo stampa, attacchi più o meno diretti nelle assemblee di partito e nelle riunioni istituzionali, il capo politico del Movimento 5 Stelle e il ministro degli Esteri si sono dati battaglia sul testo della risoluzione a sostegno del governo, in particolare sulle modalità con cui l’Italia avrebbe dovuto procedere in caso di nuovo invio di armi a Kiev. Alla fine ha perso Conte, che ha dovuto accettare la linea del governo, ovvero una risoluzione che non sposta nulla rispetto al percorso impostato con il decreto Ucraina del marzo scorso. L'ennesimo segnale della condizione di debolezza politica e della marginalità in cui si trova ormai il Movimento 5 Stelle.

La frattura tra i due era nota, al punto che c'è poco da stupirsi della scelta di Di Maio di rompere gli indugi e formalizzare lo strappo. Il suo nuovo gruppo parlamentare, che probabilmente diventerà un partito, si chiama Insieme per il futuro e nasce come costola responsabile di ex 5 Stelle a sostegno del governo guidato da Mario Draghi. È presto per collocarlo politicamente, certo, ma ci sono alcune considerazioni che è già possibile fare.

In primo luogo, il nuovo gruppo parlamentare costituisce un ulteriore cuscinetto di sicurezza nel caso in cui Conte dovesse decidere di arrivare al punto di rottura con Draghi. Ipotesi non peregrina, tutt’altro. Da tempo il capo politico dei 5 Stelle sta provando a smarcarsi dalle scelte del governo Draghi, e le ultime elezioni Comunali hanno confermato come gli elettori grillini giudichino negativamente la linea dell’appoggio “scettico” al governo.

I 5 stelle sono a pezzi, parliamoci chiaro. Questa è l’occasione giusta, l'ultima forse: Conte avrà le mani libere per spostare il M5s su posizioni via via più critiche nei confronti di Draghi, fino a poter ritirare l’appoggio al governo; in tal modo, il M5s spera di tornare a essere attrattivo per l’elettorato anti-governista o almeno provare a costruire quella piattaforma progressista a forte connotazione ecologista di cui parlava Conte a inizio mandato. La suggestione, sebbene molto complicata (specie perché la collocazione resterebbe nel campo del centrosinistra), è quella di riportare a casa Alessandro Di Battista. Insomma, nel giorno in cui perde sull'Ucraina e rischia di sfasciare il partito, Conte può trovare una via d'uscita.

Allo stesso tempo, l’operazione di Di Maio (che somiglia molto a quella di Alfano nel 2013 con NCD) punta a creare un nuovo raggruppamento centrista, che potrà contare sui tanti parlamentari in uscita dal Movimento 5 Stelle e sulle relazioni costruite in questi anni dal ministro degli Esteri. Risolvendo in un colpo solo tutte le discussioni sul secondo mandato, tra l’altro. Grazie al potere taumaturgico del sostegno al governo dei migliori, inoltre, il ministro degli Esteri completerebbe il suo percorso di legittimazione politica, con stampa e media pronti a sostituire l’etichetta di “populista” con quella di “statista responsabile”. Una transizione che dovrebbe consentirgli di consolidare la sua posizione malgrado non rappresenti più la prima forza parlamentare del Paese, ma un gruppetto della cui consistenza elettorale è lecito dubitare.

Le due formazioni potrebbero poi ritrovarsi assieme nel campo largo progressista che il Partito Democratico si sta impegnando a costruire, con la creatura di Di Maio che potrebbe anche coprire la casella al centro nel caso in cui Renzi, Calenda eccetera riuscissero nell’impresa di mettersi d’accordo e andare da soli alle elezioni. Qualche dimaiano verrebbe rieletto, i Cinque Stelle resterebbero intorno al 10% come stampella di una coalizione retta dal Pd. E, salvo clamorosi errori di Salvini (tipo legge elettorale proporzionale), con il Paese nelle mani del centrodestra della Meloni.

Questa in effetti è una scissione che il governo Draghi dovrebbe essere in grado di superare senza problemi (non importa nemmeno più di tanto se con un rimpasto), ma che si inscrive appieno in una crisi in atto che è ben più complessa e che coinvolge tutte le anime della maggioranza. Non a caso il più nervoso è sembrato proprio Matteo Salvini, un altro che sta pagando duramente la scelta di sostenere il governo delle larghissime intese. Il leader leghista potrebbe continuare a galleggiare nel sostegno a Draghi, oppure decidere di staccare la spina (più probabilmente in autunno), mandando il Paese al voto, ma molto probabilmente Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. La sola che ride sempre e comunque dei disastri della maggioranza. Ma questa non è più nemmeno una sorpresa.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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