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Dieci anni fa veniva eletto Giorgio Napolitano

Lo hanno definito Re Giorgio non solo per la durata del mandato ma anche per il suo “interventismo” nelle vicende governative, per il suo continuo esortare il Parlamento a seguire la giusta strada, ovvero la sua.
A cura di Marcello Ravveduto
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Giorgio Napolitano (@Fabio Cimaglia/LaPresse).
Giorgio Napolitano (@Fabio Cimaglia/LaPresse).

Al quarto scrutinio, con 543 voti, è eletto il decimo Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. È il 10 maggio 2006. Il Capo di Stato più longevo che l’Italia abbia conosciuto. L’unico eletto e rieletto. È rimasto sul colle nove anni passando da Prodi a Berlusconi, da Monti a Letta per finire con Renzi.

È stato il primo ex comunista ad essere arrivato alla più alta carica dello Stato soffiandola ad altri compagni che avrebbero voluto sedere sulla stessa poltrona. Lo hanno definito Re Giorgio non solo per la durata del mandato ma anche per l’“interventismo” nelle vicende governative, per il suo continuo esortare il Parlamento a seguire la giusta strada, la sua.

Quando è stato eletto alla Presidenza era già senatore a vita e molti erano convinti che sarebbe stato appagato del risultato raggiunto, ma non è andata così. In pubblico ha mantenuto un certo aplomb inglese, in privato, invece, ha spinto, rintuzzato, caldeggiato, manovrato, minacciato avendo come principale obiettivo la ragion di Stato (che non sempre coincide con la difesa del dettato costituzionale).

La polemica sulla trattativa Stato-mafia, il suo essere restio alla collaborazione, la tutela di sommovimenti sotterranei sono tutti connessi al modo novecentesco, e da funzionario di partito, di interpretare il ruolo. Craxi davanti ai giudici di Mani Pulite lo definì il ministro degli esteri del Pci indicandolo come colui che sapeva e celava il flusso di finanziamenti occulti ricevuti dall’Unione Sovietica: un quadro di partito cresciuto nella scia di Giorgio Amendola: un liberal dall’impronta staliniana.

Uno stile che ha affascinato tanti leader, a partire da Barack Obama, grazie al suo presentarsi come esponente dell’oligarchia europea, ovvero quel circolo ristretto di politici e finanzieri a cui è affidato il destino dell’Unione al di là della volontà degli Stati nazionali.

È stato, sin dagli esordi, un comunista borghese. Si legge nella sua biografia ufficiale: «Si è laureato in giurisprudenza nel dicembre 1947 presso l'Università di Napoli con una tesi in economia politica. Nel 1945-46 è stato attivo nel movimento per i Consigli studenteschi di Facoltà e delegato al 1° Congresso nazionale universitario».

Insomma, proprio come Amendola, figlio progressista di una famiglia di notabili campani. Aveva 28 anni quando è entrato per la prima volta a Montecitorio, senza mai più uscirne.

Nel discorso di insediamento immediatamente spezza ogni dubbio sulla capacità di essere super partes: «Ci si può – io credo – ormai ritrovare, superando vecchie, laceranti divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della Resistenza (Applausi dei parlamentari della maggioranza), pur senza ignorare zone d'ombra, eccessi e aberrazioni (Applausi). Ci si può ritrovare, senza riaprire le ferite del passato, nel rispetto di tutte le vittime e nell'omaggio non rituale alla liberazione dal nazifascismo come riconquista dell'indipendenza e della dignità della patria italiana (Applausi), memoria condivisa come premessa di una comune identità nazionale che abbia il suo fondamento nei valori della Costituzione. Il richiamo a quei valori trae forza della loro vitalità, che resiste, intatta, ad ogni controversia. Parlo – ed è giusto farlo anche nel celebrare il sessantesimo anniversario dell'elezione dell'Assemblea costituente – di quei principi fondamentali che scolpirono nei primi articoli della Carta costituzionale il volto della Repubblica: principi, valori, indirizzi che, scritti ieri, sono aperti a raccogliere, oggi, nuove realtà e nuove istanze».

La carta costituzionale, «come sostrato dell'unità nazionale», è lo snodo per reificare l’unità politica mettendo fine alle dispute ideologiche. Una Costituzione, tuttavia, «rigida ma non immutabile» che può essere modificata per «tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di Governo» e «evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Perché meravigliarsi, allora, del sostegno del Presidente emerito alla riforma voluta dalla maggioranza renziana? Mi sembra del tutto naturale che si proponga come suggeritore dell’azione di Governo, visto il suo atteggiamento pregresso in qualità di Capo dello Stato. Piuttosto, ma questa è materia politica/istituzionale che non riguarda questo articolo, dovrebbe essere l’attuale inquilino del Quirinale ad esigere un contenimento del predecessore.

Ma è prassi, almeno dopo il settennato di Cossiga, che i past president intervengano nel dibattito pubblico prendendo posizione e provocando le razioni scomposte del quadro politico, soprattutto delle opposizioni.

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Napolitano dell’improvvida dichiarazione della ministra Boschi che di fatto equipara, strumentalmente, l’Anpi a Casa Pound per spaccare il fronte del No nel prossimo referendum autunnale. La forzatura è pura tattica comunicativa affidata alle parole dell’esponente meno gradito, per alcuni settori sociali, della compagine renziana.

In molti giurano che il suggeritore segreto del Presidente del Consiglio rimane il “grande vecchio”, il cui compito è quello del mallevadore in sede europea. Del resto come disse in sede di giuramento: «Di certo non esiste, dinanzi a queste sfide, alcuna alternativa al rilancio della costruzione europea. L'Italia, solo come parte attiva della costruzione di un più forte e dinamico soggetto europeo, e l'Europa, solo attraverso l'unione delle sue forze e il potenziamento della sua capacità d'azione, potranno giuocare un ruolo effettivo, autonomo e peculiare nell'affermazione di un nuovo ordine internazionale di pace e di giustizia».

Sono passati dieci anni, e molta acqua è passata sotto i ponti della politica italiana, ma una cosa è certa re Giorgio non ha abdicato.

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