Non sono passati neanche due mesi dalle Regionali in Sardegna, ma per le forze di opposizione al governo Meloni sembra essere tornato il buio più totale. La vittoria di Alessandra Todde, certamente determinata anche da fattori locali e dagli errori degli avversari, era costruita su premesse semplici: una candidatura autorevole, scelte chiare su programma e orizzonte di governo, nessuna ambiguità sul piano ideologico, limitazione dell’esposizione dei leader. Una traccia anche per esperimenti futuri, si diceva in quei giorni, con la possibilità per Pd e M5s di lavorare a quell’alleanza organica e strutturale che appariva l’unico modo per arginare il progetto di Giorgia Meloni di fare dell’Italia il laboratorio della nuova destra di governo europea.
Il fallimento della spallata in Abruzzo, con un progetto diverso e in condizioni più complicate, ha invece innescato un processo completamente diverso. Che si è articolato in tre fasi, che hanno coinvolto praticamente tutti i partiti di opposizione: confusione, sabotaggio, liberi tutti. Ricostruire tutti i momenti di tensione tra i leader o elencare i fatti (veri o presunti) che hanno contribuito a riportare la palla nel campo del centrodestra, sarebbe operazione lunga e complessa. È invece molto più semplice fotografare lo stato dell’arte: l’opposizione ha sostanzialmente rinunciato a contendere al centrodestra la guida di Basilicata e Piemonte, affidandosi al caso e “ai territori” per le amministrative (per carità di patria non ci soffermeremo sul caso Bari); i leader dei principali partiti non sono mai stati così lontani, politicamente e anche umanamente; alle Europee si andrà per vincere le partite interne, tra Pd e M5s e tra Azione e Iv-+Europa, più che quella contro la destra.
Il risultato delle Elezioni Regionali in Basilicata certifica lo stato dell'arte: la destra ha in mano il Paese, anche perché di fronte non ha un'opposizione compatta e con una mission chiara e coerente. Non solo, perché ci sono altri segnali che arrivano dalla consultazione lucana, seppur piccola e segnata da un crescente astensionismo. Il centrodestra, quando non si fa male da solo e limita il livello di litigiosità interno, si dimostra più capace degli avversari anche nel costruire e sviluppare quella rete di relazioni territoriali che è garanzia di consenso elettorale nelle consultazioni locali. Non è un caso che, con la sola eccezione della Sardegna, la coalizione non perda un'elezione Regionale da quattro anni e punti a continuare il filotto anche grazie alla spinta che arriva da Palazzo Chigi e dalla sua inquilina, che ha in mano le chiavi del Paese e l'arma del Pnrr.
Intendiamoci, il voto locale segue spesso dinamiche proprie, ma le scelte a livello nazionale, soprattutto sul piano comunicativo, determinano le condizioni in cui maturano le vittorie e si consolidano o rompono gli equilibri. E qual è l'immagine che restituiscono ai territori le scelte dell'opposizione? Qual è il mood in cui si fanno le scelte di candidati e liste, si prendono decisioni sulle coalizioni? In quale clima e per quale progetto si chiede agli elettori di andare a votare?
Sulla litigiosità dell'opposizione al governo Meloni potremmo scrivere un trattato, ma a ben vedere non è nemmeno questo il punto. Perché la realtà dei fatti dice che non esiste un'opposizione alla destra, intesa come area politica chiara e riconoscibile, in grado di mobilitarsi e mobilitare i cittadini su battaglie condivise, che siano di principio o di sostanza. Esistono singole forze più o meno di opposizione, che recitano la loro parte con più o meno convinzione, e che parlano a elettorati diversi e divisi. L'ottimo risultato delle liste centriste di Renzi e Calenda ospiti (?) del campo larghissimo di Bardi in Basilicata è una piccola indicazione del "senso di appartenenza" di un elettorato che evidentemente preferisce Meloni e Tajani (forse non ancora Salvini) a Conte e Fratoianni.
Prima ancora delle simpatie fra i leader, è la distanza tra i singoli elettorati di riferimento dei diversi partiti che dovrebbe preoccupare chi vuole costruire un'alternativa alla destra. Una distanza in parte fisiologica, certo, ma in larga parte costruita da mesi, anni, di scelte miopi ed egoistiche. Dalle guerre all'immigrazione, passando per le scelte di politica interna e le leadership, i partiti di centrosinistra non hanno mai dato l'impressione di poter e saper lavorare a una piattaforma politico-programmatica unitaria, intorno alla quale costruire l'alternativa nel Paese e aggregare i diversi elettorati di riferimento. Ci si è ridotti a condurre battaglie di piccolo cabotaggio, che hanno portato solo a deboli posizionamenti su temi specifici, aprendo peraltro piccole o grandi fratture interne alla coalizione. L'orizzonte delle Europee ha favorito questo processo, indubbiamente, spingendo i singoli partiti a concentrarsi sul proprio ombelico. Così a sinistra ci si è impegnati nella ricerca di candidati di spessore con l'obiettivo di andare oltre il 4%; il M5s ha optato per una campagna aggressiva su temi cari al proprio elettorato "storico" e a quello deluso dalle scelte conservative del PD; i democratici sono impegnati nell'ennesimo psicodramma, che stavolta verte su un'incredibile opera di sabotaggio da parte delle correnti del partito a una segretaria che era stata eletta col mandato di mettere fine a logiche vecchie e all'ambiguità di fondo nel posizionamento politico e ideologico del partito, per trovarsi ora costretta ai soliti compromessi e alle classiche mezze scelte. Ognuno per sé, dunque, tutti pronti a combattere la battaglia dello zero virgola.
Poco ci si è preoccupati di cogliere i segnali che pure sono arrivati dalle piazze e dai militanti, preferendo concentrarsi su dinamiche interne ai palazzi o sulla ricerca spasmodica di un piccolo riscontro nei sondaggi elettorali della settimana. Difficile andare lontano, evidentemente.