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Elezioni politiche 2022

Dagli occhi della tigre al “si salvi chi può”, nel Pd alla rimonta su Meloni non crede più nessuno

Le liste del Partito democratico, le polemiche degli esclusi e le scelte di Enrico Letta sono un’ulteriore conferma: alla rimonta non crede nessuno, non resta che prepararsi a quello che verrà. Al governo del centrodestra, forse proprio di Giorgia Meloni.
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C’è un vecchio sketch di Corrado Guzzanti che si adatta perfettamente al contesto attuale. Veste i panni di Walter Veltroni, allora segretario dei Democratici di Sinistra, ed è impegnato a istruire il leader dell’Ulivo Francesco Rutelli in vista del voto delle Politiche del 2001 (che saranno rovinosamente perse dal centrosinistra, a favore della Casa delle Libertà guidata da Silvio Berlusconi). Alle spalle di Veltroni/Guzzanti compare un cartello esplicativo di quanto i democratici credessero nella vittoria del 2001 e nella candidatura di Rutelli: Elezioni 2006, torna la voglia di centrosinistra.

Ecco, il clima nel centrosinistra è esattamente questo, al di là degli appelli di Enrico Letta sulla rimonta possibile e dell’impegno nella costruzione di una proposta elettorale credibile. Non c'è nessuno che creda alla rimonta, si pensa già a cosa verrà dopo, magari nella speranza che la vittoria del centrodestra non sia esageratamente larga. È emerso con chiarezza nei giorni che hanno portato alla composizione delle liste del Partito democratico e nelle ore immediatamente successive: il segretario chiedeva candidati “con gli occhi della tigre” e si è ritrovato nomi di primissimo piano a protestare finanche per candidature in collegi uninominali contendibili o per posizioni nel listino tali da garantirne l’elezione in caso di buon risultato del partito. Nessuno crede che la partita sia aperta e in pochi hanno voglia di rovesciare i pronostici sul territorio, lo dimostrano tanto le polemiche dei leader delle varie correnti quanto le decisioni dello stesso segretario, che ha blindato le posizioni dei dirigenti a lui più vicini e penalizzato le aree non propriamente allineate. Persino le esecrabili candidature – spot, quelle che teoricamente servono a generare curiosità e interesse da parte degli elettori, sono state ridotte ai minimi termini. Un antipasto di congresso, più che l'avvio di una campagna per la riconquista degli elettori.

Del resto, i riscontri degli istituti di rilevazione sono eloquenti. Non c’è competizione, il vantaggio della coalizione di centrodestra oscilla fra i 15 e i 20 punti percentuali e le proiezioni dei seggi restituiscono un ampio margine di sicurezza tanto alla Camera quanto al Senato. Il Partito democratico, pur registrando un trend positivo, può al massimo sperare di superare Fratelli d’Italia; il contributo degli altri partiti della coalizione appare minimo e, almeno stando ai sondaggi elettorali di questi giorni, non sembra esserci quell’effetto polarizzazione che potrebbe determinare il travaso di voti da M5s e Terzo Polo.

Stanno emergendo tutti i limiti e le insidie di un percorso che oggettivamente partiva già in salita. Prima l’archiviazione frettolosa di un’alleanza di anni con i 5 Stelle, senza che vi fosse un’alternativa valida o una piattaforma ideologico – programmatica condivisa con tutte le altre forze del campo progressista. Poi il tentativo di costruire il campo largo al centro, naufragato tra veti e personalismi. Infine, le enormi difficoltà nel trovare un equilibrio fra la necessità di garantire rappresentanza ai tanti leader senza esercito e quella di non sovradimensionare formazioni il cui peso elettorale è tutto da scoprire. Il tutto tra un clima di proteste e insoddisfazione della base militante e lo scetticismo dei potenziali elettori.

La questione di fondo è sempre la stessa, la contraddizione intrinseca in cui si muove l’intera campagna elettorale del centrosinistra e in particolare del Partito democratico. Non si può pretendere di motivare militanti ed elettori alludendo al pericolo di una torsione antidemocratica delle istituzioni senza aver fatto tutto il possibile per evitarlo. Non essere stati in grado di costruire un’alternativa a Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, malgrado i sondaggi fossero questi da anni, è una responsabilità politica enorme degli stessi leader che ora parlano di minaccia per il Paese dalla vittoria delle destre. Di certo non ha contribuito l’aver sacrificato l’unico progetto di medio periodo e umiliato l’elettorato progressista in nome di un leader che non c’è e di un’agenda che non esiste.

E, a poco più di un mese dal voto delle politiche, restano solo: il contrasto alla "destra illiberale e pericolosa", con tre quarti della quale hai però governato nell'ultimo anno e mezzo; la carta del "pericolo fascista" piuttosto usurata dopo anni, forse decenni, di normalizzazione dei post-fascisti (quando non dei fascisti veri e propri), cui hanno contribuito in tanti; l'allarme sulle interferenze e i legami con Putin, certamente questione fondamentale per il funzionamento della nostra democrazia, ma su cui sono più le ombre che le certezze. Ah, ovviamente c'è anche il clima da resa dei conti con tutto ciò che è alla sinistra della coalizione, tanto per non farsi mancare nulla…

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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