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Da Di Pietro a Berlusconi: ecco chi voleva il carcere per i giornalisti

Per Alessandro Sallusti, condannato al carcere per diffamazione, solidarietà bipartisan da tutti i politici. Che negli ultimi anni hanno fatto a gara a promuovere leggi per mandare in galera i giornalisti. Non i diffamatori, ma quelli che riportano notizie vere.
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Sallusti-carcere

«Meno 24 giorni al carcere», avverte la prima pagina de Il Giornale di oggi. Il conto alla rovescia per l’ingresso in prigione dell’ex direttore del foglio berlusconiano è cominciato giovedì scorso, quando la Cassazione l’ha condannato a 14 mesi di carcere per aver lasciato pubblicare un articolo diffamatorio nel 2007 come direttore di Libero. Lui ha annunciato di non voler chiedere misure alternative alla detenzione (l’affidamento ai servizi sociali) e di rifiutare l’eventuale grazia concessagli da Napolitano. La solidarietà è arrivata, trasversale, da tutti i gruppi politici. «Alessandro Sallusti, con la sua condanna, diventa protagonista di un evento senza precedenti, che pone l'Italia negli ultimi posti per la libertà di stampa» (Angelino Alfano, PdL). Per Cicchitto è «una sentenza liberticida», per Borghezio una «vergogna», per Bonelli (Verdi) una «brutta pagina per la storia della democrazia». Massimo Donadi, IdV: «Un Paese dove si rischia di finire in carcere per opinioni e idee è un paese dove la libertà è a rischio» (bugia: Sallusti è stato condannato per un articolo che affermava il falso, non per un'opinione pesante, dettagli).

Il ritornello è lo stesso per tutti: «Un giornalista non può andare in carcere per ciò che ha scritto» (Roberto Rao, UdC); «Credo che la norma che regola la disciplina sulla diffamazione a mezzo stampa vada cambiata e adeguata ai parametri europei. Si tratta di una questione di democrazia e di modernità per il nostro Paese» (Angela Finocchiaro, PD). Anche Berlusconi è scandalizzato: «La carcerazione inflitta al direttore Alessandro Sallusti appare a chiunque assolutamente fuori da ogni logica (…) Chiederemo al governo di intervenire urgentemente (…) affinché casi come questi non si possano più verificare e nessuno possa essere incarcerato per avere espresso un'opinione».

In breve: guai ad arrestare un giornalista per quello che scrive. Una posizione nobile. Ineccepibile, se non fosse che tutti i partiti, e molti di questi loro notabili, oltre a non avere mai mosso un sopracciglio in trent’anni per evitare il carcere ai giornalisti, fino a pochi anni fa facevano a gara per votare e spesso promuovere leggi, commi, e cavilli per aumentarlo. Non per chi diffama scrivendo il falso, ma per chi, con scrupolo, scrive la verità, almeno quella che si trova negli atti delle indagini giudiziarie e, ogni tanto, nei verbali delle intercettazioni. Ai politici, però, la verità non piace. Il primo governo che provò a fermare le notizie sulle indagini giudiziarie, subito dopo gli scandali di tangentopoli, fu, nel ’93, quello di Giuliano Amato che, con un decreto dell’allora ministro della giustizia Giovanni Conso, provò (senza successo: Scalfaro non firmò) a ripristinare il vecchio segreto istruttorio, abolito nel 1989 per motivi di trasparenza. Poi ci riprovò il primo governo Berlusconi con il decreto Biondi, che avrebbe segretato persino gli avvisi di garanzia. E così, via di questo passo, dopo ogni scandalo. Finché, dopo la tangentopoli di La Spezia, con un progetto di Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia del primo governo Prodi, si iniziò a parlare sul serio per la prima volta di carcere per i giornalisti.

Anche quella proposta venne messa da parte, ma il 26 luglio 2005 i giornali pubblicano in prima pagina la telefonata di Giampiero Fiorani all’allora Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio: «Tonino, ti darei un bacio in fronte». È l’inizio degli scandali sulle scalate bancarie che terranno banco per tutta l’estate senza risparmiare nessuno: dal Governatore Fazio, ai banchieri, ai politici. E la legge anti-intercettazioni torna all’ordine del giorno (il governo Berlusconi vorrebbe addirittura un decreto d’urgenza, ma Ciampi glielo vieta). Il testo che viene presentato in consiglio dei ministri il 9 settembre prevede fino a tre anni di carcere per i cronisti che pubblicano le intercettazioni, ma l’UdC si oppone e la norma, proposta da Ghedini (che oggi su Sallusti dice: «La condanna definitiva al carcere di un giornalista (…) riconferma l’urgente necessità di una riforma globale che eviti il ripetersi di accadimenti siffatti. È auspicabile che governo e parlamento intervengano in tempi rapidissimi sulla materia»), salta.

Il giorno dopo Il Messaggero riporta che Roberto Castelli, ministro leghista alla giustizia (che oggi parlando del caso Sallusti dice: «sono a favore della libertà di espressione, compresa evidentemente la libertà di stampa»), «nel segreto del Consiglio dei ministri» si è battuto con le unghie affinché il carcere per i giornalisti restasse. Berlusconi si dissocia: «Quella previsione non era nel testo che avevo scritto personalmente, mi è sembrata subito una misura eccessiva. Per primo ho chiesto di eliminarla». Lo stop di Ciampi al decreto legge, però, è fatale. Il ddl arriva al Senato il 29 settembre, appena venti giorni dopo la sua approvazione. Ma è troppo tardi, la legge è già diventata inutile: le indagini ormai non si possono più fermare. E la riforma «urgentissima» perde d’un tratto tutta la sua urgenza.

Si torna a parlare del carcere per i giornalisti nell’estate del 2006, quando le indagini della Procura di Potenza sul cosiddetto “Somaliagate” (truffatori che estorcevano imprenditori millantando rapporti con servizi segreti e organizzazioni internazionali) coinvolgono un funzionario del SISDE, Gianfranco Fini (non indagato) e Vittorio Emanuele di Savoia, che viene anche intercettato. Da lì al “Savoiagate” il passo è breve: Vittorio Emanuele, accusato tra l’altro di essere a capo di un’organizzazione dedita al gioco d’azzardo illegale, viene arrestato con le accuse di associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione e alla concussione. Vengono arrestate anche altre 13 persone, tra cui il portavoce di Gianfranco Fini. Il presidente della Repubblica interviene sul Consiglio Superiore della Magistratura per avere notizie sul fascicolo personale del pm che sta indagando, Henry John Woodcock. Per avere un’idea della tentazione trasversale all’inciucio anti-intercettazioni e anti-giornalisti che freme in transatlantico e non solo basti il titolo che il 19 giugno campeggia a pagina 5 del Messaggero: «Intercettazioni, fronte bipartisan: carcere per chi rivela le registrazioni». L’articolo spiega: «Un provvedimento di legge bipartisan che punisce con il carcere il giornalista che pubblica le intercettazioni telefoniche di cui sia venuto in possesso. La tempesta scatenata dagli arresti eccellenti di Potenza, salda un singolare fronte in Parlamento: maggioranza e opposizione d'accordo, per una volta, sulla necessità di un giro di vite contro la pubblicazione di verbali secretati. (…) Secondo un disegno di legge del senatore dell'Ulivo Guido Calvi pubblicare un'intercettazione costerà da sei mesi a quattro anni di carcere. Ma il provvedimento, che è stato assegnato il 14 giugno all'esame della commissione Giustizia di Palazzo Madama, è solo uno dei cinque sullo stesso argomento già depositati in Parlamento da Forza Italia, An e dal senatore a vita Francesco Cossiga».

Gli onorevoli del centrodestra che si fanno promotori delle proposte di legge per il carcere ai giornalisti sono Giulia Bongiorno di An (fedelissima di Fini che, quando il capo dovrà separarsi da Berlusconi, si farà paladina delle battaglie in commissione giustizia contro le pene detentive per chi pubblica atti anche segreti e che oggi è relatrice del progetto di legge salva-Sallusti sulla diffamazione a mezzo stampa) che propone fino a sei mesi di carcere per chi pubblica atti coperti dal segreto investigativo, e Gaetano Pecorella (ex militante di Potere Operaio in Forza Italia nonché avvocato del Cavaliere, anche lui firmatario del disegno di legge pro-Sallusti sulla diffamazione a mezzo stampa) che vuole addirittura fino a un anno di carcere per chi pubblica notizie segrete sulle indagini.

Alla fine, però, il disegno di legge per punire i giornalisti lo presenta il Governo di centrosinistra, a firma del guardasigilli Clemente Mastella, che oggi su Sallusti dice: «Sono convinto che occorra fare di tutto per scongiurare il pericolo che un giornalista ed opinionista (…) paghi di persona ed oltremisura per aver svolto il proprio lavoro». La pena prevista nel testo di Mastella per chi «prende cognizione» di notizie segrete, ancorché non le pubblichi, va da uno a tre anni di carcere. Troppo pochi per il sottosegretario alla giustizia Luigi Li Gotti (Italia dei Valori), secondo cui «questa è una legge piena di divieti ma senza sanzioni». La riforma proposta dal governo Prodi va avanti, condivisa da tutti. Ottiene anche il benestare di Alleanza Nazionale: «Noi approviamo l’iniziativa di Mastella, perché qualcosa bisogna pure fare», dice Gianfranco Fini. «Per AN il decreto legge sulle intercettazioni va bene così com'è». L’unico che sembra avversarlo è Antonio Di Pietro – che nel Governo è ministro delle Infrastrutture – che però si preoccupa più per i limiti alle indagini dei magistrati che per quelli alla libertà di stampa: ottenuta, in Consiglio dei Ministri, la possibilità di prorogare le intercettazioni degli inquirenti per più di tre mesi, cede sul carcere per i giornalisti. «L’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche va regolamentata – dice l’ex pm – prevedendo sanzioni di vario tipo soprattutto per chi le fornisce e per chi le pubblica».

Alla Camera il ddl Mastella viene approvato con il voto di tutti, ma proprio tutti: 447 voti favorevoli, nessuno contrario. Ad astenersi o ad assentarsi dalla votazione in aperto contrasto con la legge sono solo in sette: quattro onorevoli dei DS (tra cui Beppe Giulietti), due della Margherita e dei Verdi e Salvatore Cannavò di Rifondazione. Poi però, pochi mesi dopo, cade il Governo e la legge per il carcere contro i giornalisti salta di nuovo.

Nel 2008, la prima estate del nuovo governo Berlusconi si apre all’insegna degli scandali del caso Saccà: un’indagine della Procura di Napoli, nata da un’inchiesta su un giro di fatture gonfiate, che ha portato dritto fino a Berlusconi. I pm ipotizzano che il Cavaliere abbia tentato di corrompere un senatore del centrosinistra, Nino Randazzo, per dare la famosa “spallata” al governo di Romano Prodi e che abbia corrotto anche Agostino Saccà, il manager di Rai Fiction che si spendeva per piazzare nelle serie tv della televisione pubblica le attrici e le ragazze segnalate da Berlusconi, a cui ha promesso in cambio di aiutarlo nella creazione di “Pegasus”, la sua nuova società privata per la produzione di fiction e format televisivi. È lo stesso Berlusconi, nelle intercettazioni pubblicate da L’Espresso, a promettere a Saccà: «Agostino, io poi ti sarò riconoscente e ti contraccambierò quando sarai libero imprenditore». Non solo. Secondo i pm Berlusconi avrebbe anche iniziato a subire ricatti da alcune delle ragazze che in passato ha sponsorizzato («Quella pazza della Antonella Troise … è andata a raccontare in giro delle cose pazzesche … Io devo far lavorare la Troise. Fammi questa cortesia perché sta diventando pericolosa»).

A spaventare davvero il premier, però, sono le intercettazioni ancora secretate: duemila telefonate intercettate sulle utenze di due delle ragazze che il Cavaliere ha preso in simpatia e che, per tutelare la riservatezza del primo ministro, i pm hanno stralciato dal fascicolo principale e inserito in un fascicolo a parte, segreto. Anche se nelle intercettazioni già pubbliche si parla di «donne per sollevare il morale del Capo» e di madri Terese «con quelle tette, con i tacchi a spillo», gli scandali politico-sessuali che hanno portato alla fine del berlusconismo sono ancora di là da venire. E se la Procura di Roma, a cui l’indagine è passata per competenza territoriale, dovesse decidere di non archiviare il fascicolo, quelle intercettazioni bollenti, tra cui si è iniziato a vociferare che ci sia anche quella di un ministro donna del Governo, diventerebbero pubbliche.

Berlusconi è terrorizzato: «Se viene fuori una mia telefonata di un certo tipo cambio Paese». Il ddl contro le intercettazioni firmato dal ministro della Giustizia Alfano appena all’inizio della legislatura – che nel frattempo ha ottenuto il via libero preventivo di Napolitano – diventa subito la priorità numero uno del Governo. Il testo prevede fino a cinque anni di carcere (e tre mesi di sospensione dall’Ordine dei Giornalisti) per chi pubblica notizie coperte dal segreto investigativo, più altri tre anni di carcere per averle ricevute, che valgono anche per chi poi non le pubblica. Fino a sei mesi per chi pubblica atti non più segreti e fino a tre anni per chi pubblica tabulati telefonici o intercettazioni anche pubbliche e anche solo «per riassunto», in forma non testuale. I giornalisti, secondo la proposta del Governo, saranno processabili anche solo se scriveranno i nomi dei magistrati che stanno lavorando a un’inchiesta o a un processo.

«Bravo Silvio», si complimenta Gianluigi Paragone dalle colonne dello stesso Libero di cui in quel momento è ancora direttore Alessandro Sallusti. Durante gli anni di Governo del centrodestra la discussione del ddl avanza a rilento, ostacolata dalla pressante attività degli onorevoli finiani che, per spingere il PdL alla rottura, cercano di ammorbidire il più possibile le norme. Il carcere per i giornalisti, con i diversi emendamenti presentati nel tempo, entra e esce dal testo della legge, che secondo Bossi serve per «far diventare l'Italia un paese normale», a seconda dell’evoluzione delle inchieste e della cronaca giudiziaria: dagli scandali sessuali a quelli delle cricche, dalle inchieste sulle amministrazioni locali a quelle sui potentati occulti della P3 e della P4. Finché qualcuno arriva a rimpiangere il vecchio testo di legge del governo Prodi: «Il ddl Mastella era migliore del pastrocchio sul quale il governo Berlusconi si gioca la pelle (…). Per chi avesse violato il divieto, giornalisti compresi, sarebbero fioccate galera e ammende», scrive Davide Giacalone su Libero il 18 luglio 2010.

Tra i parlamentari pidiellini che si battono a favore del carcere per i giornalisti spiccano Manlio Contento e Maurizio Paniz (firmatario della proposta di legge pro-Sallusti sulla diffamazione), che propongono un emendamento – che il ministro della Giustizia Nitto Palma definisce «molto ragionevole» – per sanzionare con la reclusione fino a tre anni chi pubblica intercettazioni «irrilevanti», senza peraltro definire un criterio per distinguerle da quelle rilevanti, appartenendo le prime a una categoria diversa e distinta da quella delle intercettazioni segrete. A proposito di chi pubblica notizie segrete, Paniz spiega a Radio 24: «Il giornalista  che pubblica ciò che non può pubblicare dovrebbe subire una sanzione penale (…) Ci vorrebbe una sanzione da 15 giorni a un anno, poi il giudice graduerà a seconda della violazione, vedrà se sono possibili riti alternativi, pene pecuniarie o multe o se il giornalista debba andare in carcere».

Dopo che L’Espresso ha pubblicato anche le registrazioni audio private della escort Patrizia D’Addario delle notti passate con Berlusconi, è spuntato fuori anche un comma intitolato alla escort barese. È il cosiddetto “comma D’Addario”, che prevede il divieto assoluto di effettuare riprese o registrazioni di colloqui personali all’insaputa dell’interlocutore, salvo che serva allo scopo esclusivo di documentare una notizia di reato. Pena prevista per chi trasgredisce: da sei mesi a quattro anni di reclusione. Vale a dire, arrestare tutti i giornalisti delle Iene, di Striscia, di Report e, in generale, chiunque usa la microcamera nascosta e il registratore come strumenti di indagine giornalistica. Per rimediare, il senatore del PD Felice Casson presenta un emendamento che autorizza a effettuare questo tipo di registrazioni anche per «attività di cronaca». Ma c’è un tranello: lo possono fare solo i giornalisti professionisti, mentre per quelli iscritti all’Albo dei pubblicisti restano i quattro anni di carcere. Tradotto in termini pratici: se l’emendamento del senatore democratico fosse in vigore, mezza redazione di Report starebbe in galera. Per sventare il pericolo sarà necessaria la denuncia in prima serata di Milena Gabanelli in apertura di trasmissione.

Del resto lo stesso Berlusconi l’ha chiarito senza mezze parole: «La libertà di stampa non è un diritto assoluto». Se poi proprio non si vuole mettere in carcere i giornalisti, resta sempre valido il suggerimento di D’Alema che punta a risolvere il problema direttamente alla radice: «Voi parlate di tremila euro, di cinquemila euro: ma li dobbiamo chiudere, quei giornali!»

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