Il tempo sta per esaurirsi: nella serata di lunedì 26 agosto il Presidente della Repubblica attende una indicazione di massima da Di Maio e Zingaretti sull'esito delle trattative fra PD e Movimento 5 Stelle, per poi procedere a stilare il calendario delle nuove consultazioni. Mattarella, come aveva spiegato nel durissimo messaggio di chiusura delle prime consultazioni, non concederà ulteriori dilazioni, per non pregiudicare la possibilità di sciogliere le Camere in tempo utile da permettere al governo che nascerà dopo le elezioni di impostare la legge di bilancio e, si spera, impedire l'aumento dell'IVA.
Sono ore febbrili, dunque, per chi sta conducendo le trattative post crisi di governo e anche per chi sta cercando di sabotarle. Man mano che si avvicina la deadline, infatti, emergono le vere questioni sul tavolo e passa in secondo piano quello che sembrava essere "l'ostacolo insormontabile", ovvero il taglio dei parlamentari legato all'approvazione della riforma Fraccaro. L'accordo sul punto, infatti, è a un passo, con un allungamento dei tempi sull'approvazione definitiva del ddl costituzionale in modo da permettere l'impostazione di un "disegno più ampio", che riguardi la nuova legge elettorale e che corregga le storture che si determinerebbero in caso di semplice taglio della rappresentanza parlamentare.
Oltre la cortina fumogena del "taglio dei parlamentari" ci sono sempre state le vere questioni, quelle che davvero possono pregiudicare la chiusura e la tenuta dell'accordo tra democratici e 5 Stelle. Il nome del prossimo inquilino di Palazzo Chigi, per cominciare. Il Movimento 5 Stelle ha messo sul tavolo il nome di Giuseppe Conte, trovando la secca risposta di Zingaretti, che aveva dettato la parola "discontinuità" rispetto all'esecutivo precedente come precondizione per trattare. Sono in molti però all'interno del PD a considerare sbagliata la pregiudiziale del segretario nei confronti del Presidente del Consiglio uscente. Conte, è la lettura che circola non solo in casa renziana, appare la figura migliore per gestire questa fase, non soltanto per l'alto indice di gradimento dei cittadini. Con la rottura netta con Salvini, infatti, Conte ha svestito definitivamente i panni del tecnico super partes e ha operato una decisa scelta di campo, diventando punto di riferimento centrale per l'elettorato 5 Stelle. Una sua conferma a Chigi ridimensionerebbe il ruolo di Di Maio, spiegano fonti renziane, e il peso contrattuale dei 5 Stelle nell'assegnazione dei posti all'interno dell'esecutivo. La discontinuità di cui parla Zingaretti, in quel caso, si otterrebbe facendo piazza pulita dei ministri grillini del vecchio governo, forse con l'unica eccezione di Bonafede (garanzia per Grillo e Casaleggio) e dello stesso Fraccaro. L'impostazione di Zingaretti è invece piuttosto diversa. Pur preferendo che per Chigi sia indicato un nome terzo (Cartabia è la carta della segreteria, malgrado lei abbia chiesto di rimanere alla Consulta), non chiuderebbe al nome di Roberto Fico, rispettato dai militanti democratici, e alla partecipazione di Di Maio nel governo, non come vicepresidente del Consiglio ma "solo" come ministro del Lavoro (mentre per lo Sviluppo Economico si pensa a una donna di area renziana). Il Presidente della Camera per ora fa sapere di non essere disponibile, ma è chiaro che non potrebbe tirarsi indietro nel caso di indicazione chiara dei due gruppi e di invito di Mattarella.
In casa 5 Stelle la situazione è ancora più intricata. Luigi Di Maio deve tenere insieme gruppi parlamentari in fibrillazione e deve soppesare diverse proposte, tutte ulteriormente divisive. La linea della fermezza su Conte serve a tenere insieme il partito, ma lo sforzo potrebbe non bastare. L'endorsement di Grillo non è stato risolutivo, anzi, ha ridotto i margini di di Maio, mentre le parole di Di Battista hanno galvanizzato i suoi oppositori. Come noto, c'è una parte degli eletti grillini che resta contraria a un accordo col PD e che preferirebbe sacrificare Conte per riaprire le trattative con la Lega di Salvini (non a caso si parla di una pattuglia di senatori grillini dissidenti pronta a far pesare i propri voti per spingere verso gli ex alleati). Al tavolo con gli ex alleati, i 5 Stelle si accomoderebbero da una posizione di estrema forza e Di Maio non avrebbe che da raccogliere la mezza proposta leghista, sedersi a Palazzo Chigi e blindare le poltrone ministeriali dei tanti che con Zingaretti non avrebbero alcuna chance di conservarle. Il capo politico dei 5 Stelle, però, teme che l'apertura leghista sia volta solo a far saltare il tavolo con i democratici e continua a pensare di non potersi più fidare di Matteo Salvini. Allo stesso tempo, però, sa di dover prendere una decisione rapida, per non rischiare di subire un pesante ridimensionamento personale e incrinare definitivamente la sua leadership. Sono in molti, infatti, a ipotizzare che lo stallo possa essere rotto solo dalla coppia Grillo – Casaleggio, che si caricherebbero l'onere di spingere il Movimento ad accettare il nome di Fico, archiviando, nei fatti, la parentesi Conte e la gestione Di Maio. Non è un caso che, come vi spieghiamo qui, l'ipotesi di ricorrere al voto su Rousseau per far scegliere i militanti 5 Stelle tra Conte e Fico sia sempre più concreta.
Il tempo stringe, però. Ed entrambi i leader sanno di trattare solo per una parte del loro partito, mentre altre correnti fanno di tutto per far saltare il tavolo o imporre soluzioni alternative. Non la situazione migliore al mondo, insomma.