La netta vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane ha galvanizzato la destra mondiale, con reazioni entusiaste da parte dei leader dei principali partiti e movimenti conservatori. In Europa, peraltro, lo schiacciante successo dei repubblicani americani è stato interpretato in modo piuttosto simile anche dalla controparte: la conferma dell’ineluttabilità dello spostamento a destra dell’elettorato, come reazione alle scelte e ai posizionamenti delle forze progressiste, nonché ai cambiamenti sociali in atto. L’entusiasmo della destra è comprensibile, soprattutto dell’ala conservatrice/reazionaria (che ha sposato la crociata anti-woke in chiave tradizionalista) e di quella sovranista (che apprezza la tensione isolazionista di Trump). Si rafforza l’idea che i cittadini stiano premiando una certa visione della società e una chiara idea di futuro, declinate in modi simili dai vari partiti e movimenti della destra europea. Le nomine di governo del successore di Biden, poi, sono più che un messaggio: non è più il tempo dei compromessi, ma quello di cambiare le cose (o di restaurarle, a seconda) nella direzione che abbiamo promesso e in coerenza coi principi che ci hanno garantito il sostegno popolare.
Che sia davvero il tramonto del mondo immaginato dalle élite democratiche e da milioni di progressisti in Occidente, non è dato sapere. L'unica cosa certa, tornando alle faccende di casa, è che i leader della destra italiana ci credono davvero. E sembrano sempre più convinti che sia necessario prendere il più possibile da Trump, dalla sua comunicazione e dal suo approccio alle grandi questioni del nostro tempo. L'escalation di proclami, i toni da rivoluzione epocale, lo scivolamento del linguaggio (anche) istituzionale verso una vera incontinenza verbale di questi ultimi giorni rappresentano solo l'antipasto di quello che ci attende, insomma.
Salvini, trumpiano per scelta e vocazione
Matteo Salvini, da tempo su posizioni trumpiane, sembra essersi messo in scia con grande determinazione. La comunicazione delle ultime settimane rimanda piuttosto chiaramente ad alcune scelte dello staff di Trump, persino negli aspetti più controversi (sulla tendenza alla memizzazione ci sarebbe molto da discutere). Dopo le politiche del 2022, il leader del Carroccio aveva avvertito l’esigenza di ricostruire la propria figura politica, scegliendo di presentarsi come l’uomo del fare e insistendo molto sulla sua capacità di “risolvere i problemi” (ricorderete gli innumerevoli messaggi dai suoi uffici, l’esasperato utilizzo del concetto di “buonsenso”, le presenze televisive in cui sciorinava numeri e dati). Ora siamo evidentemente in una fase diversa, in cui sente di avere maggiore spazio di manovra e intende sfruttarlo per aumentare il consenso tra un definito tipo di elettorato. È, in un certo senso, una specie di ritorno alle origini: una comunicazione ossessiva, divisiva e molto polarizzante su temi di grande impatto sociale (o almeno percepiti come tale dai cittadini); la ricerca della battuta a effetto, della spontaneità a tutti i costi; il linguaggio triviale, come se non fosse il vicepresidente del Consiglio (“zecche”, “farabutti” e simili epiteti); il totale disinteresse per la coerenza tra fatti e interpretazioni, la commistione di verità, manipolazioni e vere e proprie fake news. Soprattutto, il vittimismo spinto e l’uso continuo del binomio élite-popolo. Un esempio concreto? Il surreale commento sui suoi social immediatamente successivo alla vittoria di Donald Trump durante il quale inseriva il tema del suo processo per il caso Open Arms, auspicando che "la lezione" delle presidenziali americane fosse recepita da Bruxelles e dai giudici a Palermo. È, per usare una boutade, la comunicazione della cravatta rossa (che ormai il leader leghista indossa quasi sempre) ed è funzionale a parlare a un target ben definito: classe media impoverita, persone che si sentono "minacciate" dall'immigrazione o dai cambiamenti sociali, elettorato rimasto senza rappresentanza politica (no vax, "patrioti" delusi dalle scelte conservative di Meloni, per esempio). Ricorda qualcosa?
La diversa posizione di Giorgia Meloni
Giorgia Meloni si trova in un contesto molto meno semplice. Certamente non può nascondere la vicinanza culturale e intellettuale al mondo che ha sostenuto e determinato l’incoronazione del nuovo presidente degli Stati Uniti, così come non disdegna di manifestare aperto supporto alle crociate identitarie di Trump. Così come non è difficile riscontrare delle analogie nell'autenticità nella comunicazione e nella capacità di imporre il frame narrativo più utile nel dibattito pubblico. È noto, inoltre, il suo legame personale con Elon Musk, alfiere del trumpismo e soprattutto di un’ideologia perfettamente compatibile col modello di società per cui la leader di Fratelli d’Italia sta lavorando da anni.
Allo stesso tempo, Meloni deve fare i conti con una serie di scelte specifiche dalle conseguenze imprevedibili. La tensione isolazionista di Trump potrebbe rappresentare un serio problema per l’Europa di von Der Leyen, sul piano economico, strategico e militare. Uno scenario che preoccupa anche lei, che ad esempio si è spesa per la causa Ucraina come pochi altri leader europei.
Da qui a considerare la vittoria di Trump un problema per Meloni, come pure alcuni analisti hanno fatto, ce ne passa eccome. La presidente del Consiglio, infatti, oltre ad aver dimostrato una grande capacità di adattamento e un certo cinismo in politica estera (l'abbraccio con von der Leyen e Biden dopo anni di parole al veleno e propaganda dall'opposizione), può sventolare la bandiera del trionfo trumpiano come e più dell'alleato leghista. Perché condivide la lettura delle trasformazioni sociali e della guerra culturale della destra repubblicana, e può agire da una posizione di governo. Ha la forza, i numeri, la volontà e l'interesse a trasformare l'Italia in un laboratorio di "quel che sarà il nuovo mondo". Un progetto ambizioso e complicato, che l'effetto contagio del voto americano non può che rafforzare anche in Europa.