Da quando Elena Cecchettin, sorella di Giulia Cecchettin, ha pronunciato in televisione e sui giornali la parola “patriarcato”, indicandolo come la causa del femminicidio della sorella da parte dell’ex fidanzato Filippo Turetta, sembra che l’Italia abbia improvvisamente a che fare con una cosa mai vista prima. Giornalisti, senatori, esponenti delle istituzioni e della Chiesa si affrettano a negare l’esistenza del patriarcato. Anche il padre di Turetta ha ribadito in un’intervista al Corriere del Veneto che la sua “non è una famiglia patriarcale”. Tuttavia, il significato di patriarcato viene spesso frainteso.
La parola patriarcato (insieme a “matriarcato”) nasce nell’800 nell’antropologia per descrivere le società in cui il potere è gestito dagli uomini e trasmesso in linea patrilineare. Molte delle persone che in questi giorni confutano il patriarcato sostengono che questo termine sia adatto per il passato, ma non per il presente, oppure che si applichi soltanto a contesti estranei al nostro, come la cultura araba. In realtà, nella sua accezione moderna, la parola “patriarcato” non descrive un periodo storico o una specifica società. Agli inizi del ventesimo secolo, il sociologo Max Weber definiva il patriarcato come il prototipo di ogni forma di potere tradizionale. Per Weber il patriarcato quindi in passato è stata una forma di organizzazione sociale, soppiantata poi da altre forme, ma per le quali ha comunque rappresentato un modello imprescindibile.
Negli anni ’70, alcune pensatrici femministe recuperarono questa parola, sottolineando il carattere prototipico e universale del patriarcato, che si manifesta soprattutto a livello culturale. Come ha scritto Helen Eisenstein, oggi “per patriarcato si intende un sistema di potere sessuale in cui il ruolo maschile è superiore in possesso di potere e privilegio economico” e “sebbene la base legale e istituzionale del patriarcato fosse più esplicita in passato, le relazioni fondamentali di potere sono rimaste le stesse”.
Tale premessa è fondamentale per capire cosa si intende quando si dice che bambini e ragazzi ricevono un’educazione patriarcale. Questa parola evoca un immaginario del passato, dove i padri erano i decisori assoluti del destino delle donne e governavano la famiglia imponendo violenza e sopraffazione, finendo spesso col creare un circolo vizioso che si ripeteva una volta che i figli maschi diventavano adulti. Anche se oggi purtroppo ci sono ancora uomini che si comportano così, è legittimo dire che questo non sia il comportamento più diffuso nella nostra società. Ma ciò non toglie che la forma prevalente di educazione sia ancora quella patriarcale.
Una società patriarcale è una società in cui il genere diventa il principio organizzatore, ovvero stabilisce cosa è consentito o non consentito fare, che ruoli si possono assume e quali invece si devono evitare, come è opportuno vestirsi, quanta libertà si ha. Molte di queste norme vengono apprese proprio tramite l’educazione, sin dai primi anni di vita: abiti, giocattoli, sport, persino materie scolastiche sono divise per “cose da maschi” e “cose da femmine”. A bambini e bambine vengono insegnate cose molto diverse riguardo la loro possibilità di muoversi, esprimersi e rapportarsi con l’altro sesso. In questi giorni moltissime persone hanno ricondiviso cartelli e slogan con la scritta “Proteggi tua figlia” sbarrata e subito sotto “Educa tuo figlio”. È un esempio molto adeguato di educazione patriarcale: si insegna alle bambine e alle ragazze a stare attente, a non mettersi troppo in mostra o ad avere la testa sulle spalle, mentre raramente si insegna ai bambini il rispetto del consenso altrui.
“L’educazione patriarcale è una sorta di brodo culturale che viene trasmesso a volte in modo anche del tutto inconsapevole”, spiega la pedagogista Alessia Dulbecco, autrice del libro Si è sempre fatto così. “Diamo per scontato che l’educazione sia una pratica intenzionale, come quella della scuola, ma l’educazione è anche quella informale dei genitori, della squadra di calcetto, dei media. Dato che il patriarcato è una struttura socio-culturale dentro la quale tutte e tutti noi siamo inseriti, è impossibile pensare di esserne immuni”. Anche se esistono degli antidoti a questo tipo di educazione, aggiunge Dulbecco, “non è possibile non ricevere un’educazione patriarcale”.
Una delle proposte per arginare il fenomeno della violenza di genere è proprio quella di agire sull’educazione, introducendo corsi di affettività e sessualità nelle scuole. Al momento, l’Italia è uno dei pochi Paesi in Europa senza l’obbligo di svolgere questa attività nel percorso scolastico e, stando alle bozze del piano del governo per implementarla, risulta comunque facoltativa e sottoposta al consenso dei genitori. Ma non basta “educare alle relazioni”, perché si può educare alle relazioni anche ripetendo i codici del patriarcato, specie se questa missione è affidata a chi non ha le competenze giuste per farlo, come prevede il piano del governo.