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Cosa succede se l’Italia esce dalla Nuova via della seta: “Dalla Cina non ci saranno ritorsioni”

Entro pochi mesi il governo Meloni dovrà decidere se abbandonare la Nuova via della seta, l’accordo commerciale e politico stretto con la Cina nel 2019. Secondo Alberto Forchielli, economista e imprenditore intervistato da Fanpage.it, è una decisione scontata: Roma farà un passo indietro. E da Pechino non arriveranno ‘vendette’ commerciali di alcun tipo.
Intervista a Alberto Forchielli
Economista e imprenditore
A cura di Luca Pons
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Il governo Meloni si avvicina a un bivio nei suoi rapporti internazionali. Nei prossimi mesi dovrà decidere se continuare a far parte della Nuova via della seta (nome ufficiale "Belt and road initiative" o "Bri"), l'iniziativa della Cina per allargare i suoi rapporti commerciali e politici. Oggi l'Italia è l'unico Paese del G7 a essere inserito nella Via della seta, in seguito a un accordo firmato dal primo governo Conte nel 2019. Pochi giorni fa Giorgia Meloni ha detto che una decisione non è ancora stata presa.

L'accordo sarà rinnovato automaticamente a marzo 2024, e servono tre mesi di preavviso per tirarsi fuori. Il governo ha tempo fino a dicembre, quindi, per comunicare a Pechino la sua intenzione di fare un passo indietro. Alberto Forchielli, economista e imprenditore con ampia esperienza nel settore dei rapporti internazionali, ha spiegato a Fanpage.it perché uscire dalla Bri non sarebbe un danno: "Non credo ci saranno ripercussioni negative per l'Italia, in quel caso la Cina lancerebbe un messaggio molto negativo e in fatto di diplomazia non sono cretini".

La Nuova via della seta negli ultimi anni ha fatto aumentare gli scambi tra Cina e Italia, ma a crescere sono state soprattutto le esportazioni cinesi nell'economia italiana. Secondo lei se il governo Meloni decidesse di abbandonarla, Pechino non si ‘vendicherebbe'?

Serve una premessa. Intanto, per quanto riguarda la Nuova via della seta, è la prima volta che un Paese ne esce. Per cui non c'è una prassi consolidata. Detto questo, la Cina non è nuova ad azioni di ritorsione commerciale. Le ha fatte nei confronti di Australia, Filippine, Lituania e così via. Sostanzialmente sono blocchi dalle importazioni, dazi temporanei, oppure senza dire niente blocchi e ritardi alla dogana. Senza provvedimenti, azioni non giuridiche ma di fatto. Nel caso delle Filippine, la dogana non processava le banane e le banane marcivano nei porti.

Quindi potrebbe succedere anche nei confronti dell'Italia?

Penso di no. Gli amici della Cina in Italia, senza mai dirlo esplicitamente, fanno trapelare che l'Italia sarebbe esposta a ritorsioni, e le aziende italiane avrebbero molto da soffrire. A sottintendere queste cose è soprattutto un gruppo di pressione pro-Cina che include anche l'ex sottosegretario all'Economia Michele Geraci, che era al ministero quando fu firmato il memorandum Italia-Cina. È vero che la Cina potrebbe lavorare contro le imprese italiane, rallentando i processi alla dogana. O con dei recall fittizi: richiamare un modello di Ferrari, ad esempio, dicendo che ha dei difetti. O anche negando autorizzazioni alle imprese italiane in Cina. Potrebbe fare queste cose. Ma io non credo che le farà.

Perché non dovrebbe?

Lancerebbe un messaggio molto negativo: direbbe che l'adesione alla Via della seta è un cappio d'acciaio, da cui non si può più uscire senza pesanti ritorsioni. Un brutto messaggio da lanciare a chi già ne fa parte. E poi, sarebbe pessimo per i rapporti con i Paesi europei, in un momento in cui le relazioni sino-europee sono fragili per via della guerra in Ucraina e anche di certi atteggiamenti mercantilistici della Cina per cui l'Unione europea ha lanciato il de-risking. Sarebbe un regalo della Cina ai suoi oppositori.

Una ritorsione contro l'Italia non potrebbe servire per evitare che altri Paesi lascino la Via della seta?

Non è che ci sia una lunga lista di Stati che vogliono abbandonare la Bri, l'Italia è l'unica. Quindi non c'è bisogno di lanciare un avvertimento a nessuno. La Cina non è stupida dal punto di vista diplomatico. Le conviene dire "ma sì, capiamo, abbiamo scherzato, facciamo un altro accordo commerciale come se non fosse successo niente". Anche perché non è che noi non abbiamo armi.

Cioè?

Le ritorsioni italiane nei confronti della Cina potrebbero essere molto pesanti. Anche noi in teoria potremmo ritardare il processo doganale dei prodotti cinesi, approfondire i controlli della Guardia di Finanza, ricorrere a strumenti non giuridici. E loro esportano in Italia molto più di quanto importano. Quindi il governo italiano potrebbe svolgere un'operazione di moral suasion, su quei 60 miliardi di euro di importazioni cinesi in Italia ogni anno.

Quindi non c'è da temere all'idea che l'Italia lasci la Bri?

No, la paura su cui puntano i sostenitori della Via della seta è un timore inesistente.

L'ambasciatore cinese in Italia ha detto a Fanpage.it che il nostro Paese "avrebbe una ripercussione sulla sua immagine, la sua credibilità e le sue prospettive di cooperazione".

Se vuole si può parlare delle "prospettive", ma l'Italia non perderebbe fatturato di esportazione e non avrebbe problemi con le aziende coinvolte. Direi proprio di no.

Il governo italiano negli ultimi mesi ha usato il suo golden power per limitare l'influenza cinese in settori strategici. Un segno di rapporti tesi?

Al contrario.Per esempio nel caso della Pirelli abbiamo di fatto estromesso i cinesi (a giugno il governo ha limitato l'influenza del socio cinese Sinochem nel consiglio di amministrazione di Pirelli, ndr). Che è una cosa molto più pesante che uscire dalla Via della seta, secondo me, dal punto di vista sostanziale. Però non c'è stata nessuna ripercussione o protesta da parte cinese. È la dimostrazione che non gli conviene.

In ogni caso quindi uscire dalla Via della seta non vorrebbe dire uno strappo con Pechino?

Ma no. Poi i cinesi capiscono: le alleanze italiane sono quelle, le riconoscono. L'idea che facciano delle ritorsioni commerciali contro l'Italia equivale a sostenere che non capiscano niente di relazioni diplomatiche. Sarebbe un enorme regalo della Cina al fronte anti-cinese in Occidente. Si immagina che effetto avrebbe sull'opinione pubblica una ritorsione contro le merci italiane? Invece sono molto più sofisticati.

Allo stato attuale, secondo lei è possibile che il governo decida di non uscire dalla Bri?

No, lo escludo. La Via della seta è un contenitore vuoto, quindi non c'è problema a uscirne. Non è che ci siano opere a metà, o grandi trattati difficili da sciogliere. C'è solo un memorandum senza forti conseguenze concrete.

Ma se è un accordo senza sostanza, e in ogni caso con la Cina bisognerà avere dei rapporti commerciali, perché uscirne?

Per ragioni diplomatiche. La Via della seta risponde al desiderio di proiezione internazionale della Cina. Per un Paese che è membro della Nato, dell'Unione europea, che è sempre stato filo-atlantico, farne parte denota un cambio di alleanze. È una macchia diplomatica. E uscirne permette anche al governo attuale di prendere le distanze dal governo che l'ha firmata.

Nel complesso quindi il bilancio sulla Via della seta per l'Italia è negativo?

Abbiamo scontentato i nostri alleati, abbiamo ricordato loro quanto è ballerino il nostro governo in tema di alleanze, e in cambio non abbiamo ottenuto niente. In questo senso, ha ragione il ministro Crosetto a dire che è stato "scellerato". È come un uomo sposato che esce con un'altra donna, fa incazzare la moglie e tutti quanti e poi non ci va neanche a letto.

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