C’era grande attesa per le comunicazioni di Giuseppe Conte alla Camera su quella che appare la crisi di governo politicamente più incomprensibile e peggio gestita della storia recente del nostro Paese. Il Presidente del Consiglio era chiamato a spiegare non solo cosa intendesse fare per gestire in piena emergenza politica una fase delicatissima (con la campagna di vaccinazioni, il Recovery plan, i nuovi ristori e l’incubo di un deciso aumento di morti e contagi legato a nuove varianti del Sars-Cov2), ma anche a farci capire come intendesse muoversi dopo lo strappo operato da una delle componenti della sua maggioranza di governo.
Nel suo lungo intervento, però, ha risposto solo in maniera parziale, lasciando più di qualche questione sul tavolo, probabilmente perché ancora non si sono incastrati tutti i pezzi del puzzle. In primo luogo, Conte ha rivendicato le scelte di questi ultimi mesi sulla gestione dell’emergenza sanitaria e del sostegno all’economia, sottolineando però tre aspetti destinati a rivelarsi centrali nella sua exit strategy. Le decisioni dell’esecutivo, ha spiegato, sono state tutte “politiche” e ampiamente condivise dalle altre forze che sostengono la maggioranza: un modo neanche troppo velato di ricordare ai renziani che nell’ultimo anno e mezzo non sono stati in ritiro spirituale a Rignano, bensì parte attiva dei processi decisionali. Il tentativo di smontare uno dei pilastri della narrazione renziana, ovvero l’immagine dell’uomo solo al governo che chiede i pieni poteri, è stato evidente anche e soprattutto quando ha parlato dell’emergenza pandemica. Nella lettura del capo del governo, le Regioni hanno avuto un ruolo determinante e “primario”, secondo una linea che gli esponenti di Italia Viva non hanno mai contestato. Per inciso, qui Conte non ha fatto neanche un minimo, omettendo di spiegare le ragioni per le quali non ha mai ritenuto di utilizzare gli strumenti offerti dalla nostra Costituzione (articolo 120, certo, ma anche 112, 115 e 118) per gestire centralmente l’emergenza e porre rimedio alla confusione normativa, agli scavalcamenti di campo e agli errori della co-gestione Stato – Regioni.
C’è poi un secondo punto che è particolarmente rilevante, perché svela come l’intenzione del Presidente del Consiglio sia quello di inchiodare alle proprie responsabilità Matteo Renzi (che non nomina mai nel corso di oltre 50 minuti di intervento). Conte infatti ha ricordato come la piattaforma del suo esecutivo abbia sempre avuto una forte connotazione europeista e anti-sovranista, elencando fra le direttrici principali l’attenzione ai bisogni delle persone, il sostegno al reddito, l’inclusione sociale, il contrasto al gap di genere e la spinta alla digitalizzazione e all’innovazione. Sono questioni su cui era nato il patto che aveva portato alla nascita del suo governo, che rendono ancor meno comprensibile lo strappo renziano, tanto più nel momento in cui le richieste di Italia Viva avevano trovato spazio nella nuova formulazione del Recovery Plan. Su questa scia, anche il mezzo colpo di teatro dell’annuncio della cessione delle deleghe su Agricoltura e, soprattutto, servizi segreti. La strategia è chiara: togliere a Renzi ogni ragione politica e restituire l'immagine di una crisi aperta per mero tornaconto personale dal leader di Italia Viva. Sui social sta funzionando, in Parlamento non del tutto.
Già, perché il terzo pilastro dell'exit strategy di Conte è la ricerca in Parlamento del sostegno per andare avanti. In tal senso, una parte consistente del suo discorso è stata indirizzata a blandire non solo interi gruppi (il modo in cui ha ammiccato a Forza Italia è esplicativo…), ma anche i singoli parlamentari, cui ha più volte chiesto "aiuto" e "sostegno". L'uomo che ha utilizzato come mai prima i Dpcm e i decreti legge ha rivendicato di aver sempre tenuto in massima considerazione il Parlamento, che ha anche ringraziato per i contributo sul Recovery Plan (e pazienza se non si capisca come e quando il piano sia stato discusso alla Camera o al Senato…). Per tranquillizzare i parlamentari e i futuri responsabili si è spinto fino al punto di “promettere” una legge elettorale proporzionale, in grado cioè di garantire la rappresentanza dei partitini. Difficile capire se e con quanto successo.
Il problema di fondo però resta sempre lo stesso: non abbiamo certezze su come e se si uscirà dalla crisi. Conte, in effetti, non ha detto quali saranno le prossime mosse e quali conseguenze intende trarre dall'uscita dalla maggioranza di governo di una delle forze che ne hanno determinato la nascita. Anche ammettendo che trovi i numeri in Parlamento, infatti, appare piuttosto improbabile che possa andare avanti come se niente fosse, limitandosi a riassegnare gli incarichi di Italia Viva e accontentandosi di chiedere i voti di "quelli che ci stanno di volta in volta". L'uscita di Italia Viva (che si asterrà alla Camera) non ha solo conseguenze numeriche, ma anche politiche e appare molto improbabile che il Presidente della Repubblica non chieda a Conte di prenderne atto, anche e soprattutto se dovesse davvero formarsi il gruppo dei cosiddetti responsabili. È per questo che, in caso di raggiungimento della fiducia in Parlamento, l'ipotesi di dimissioni e reincarico resta in piedi, malgrado le perplessità dello stesso Conte. Il quale ha fatto capire di non volersi sedere al tavolo coi renziani, senza però dire se intende farlo con i "costruttori" e senza spiegare cosa sarebbe disposto a dar loro in cambio dell'appoggio. Mica una questione da poco…