Cosa non torna nelle parole di Giorgia Meloni nel video sull’indagine e il caso Almasri: il fact checking
A dare la notizia dell'inchiesta sul caso Almasri, che vede indagati Giorgia Meloni, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano, è stata la stessa presidente del Consiglio. In un video social, tenendo in mano la comunicazione della Procura (chiamata erroneamente "avviso di garanzia", ma ci arriveremo), la premier ha criticato l'avvocato che ha depositato la denuncia nei suoi confronti, la Corte penale internazionale, il procuratore di Roma e in generale la magistratura.
Insomma, ha fatto passare l'atto come un vero e proprio attacco al governo, magari in risposta alla riforma della giustizia (come hanno poi chiarito altri esponenti di FdI). Ma, anche senza considerare che in realtà sul piano politico l'indagine potrebbe essere una buona notizia per l'esecutivo, ci sono molti passaggi che non tornano nel discorso di Meloni: informazioni false, omissioni, mezze verità e dichiarazioni tendenziose.
Meloni non ha ricevuto un avviso di garanzia e non c'è un attacco della magistratura
Innanzitutto, c'è un errore fattuale nelle parole di Meloni, che ha creato parecchia confusione ed è servito ad alimentare l'idea di un attacco della magistratura. Non è vero che la Procura le ha "inviato un avviso di garanzia".
Qui bisogna fare chiarezza su qualche termine tecnico. Il cosiddetto "avviso di garanzia" viene inviato a una persona indagata quando è necessario che sia informata delle indagini, ad esempio perché è convocata per un interrogatorio, o comunque perché gli inquirenti intendono fare qualcosa che prevede la presenza del suo avvocato difensore. Un'indagine può aprirsi senza nessun avviso, e proseguire fino a quando non c'è un atto simile: a quel punto scatta l'avviso di garanzia, che serve appunto a "garantire" che chi è sotto indagine possa tutelarsi.
Non è questo che hanno ricevuto Meloni e gli altri esponenti del governo. In questo caso l'indagine non è nemmeno iniziata. Per i ministri e la presidente del Consiglio, infatti, la legge stabilisce una procedura diversa. Non appena arriva una denuncia nei loro confronti, la Procura in questione deve trasmettere l'atto al Tribunale dei ministri, un organo specifico per questo tipo di denunce.
Non solo: il procuratore non deve fare alcuna indagine prima di rinviare la denuncia al Tribunale dei ministri, come dice l'articolo 6 della legge del 1989 che regola la questione. E, nel momento in cui la trasmette, è obbligato ad avvisare le persone coinvolte. Questa è la cosiddetta "comunicazione di iscrizione al registro degli indagati".
Ieri l'Associazione nazionale magistrati ha affermato che il documento inviato a Meloni è un "atto dovuto": è stata depositata una denuncia nei suoi confronti, e perciò era quasi obbligatorio che lei venisse avvisata e il fascicolo inviato al tribunale dei ministri. Il segretario dell'Anm, Salvatore Casciaro, ha spiegato che l'unico margine di discrezionalità era che la Procura poteva considerare "manifestamente infondate e fantasiose" le accuse. In quel caso, le avrebbe dovute lasciar cadere.
Le critiche al pm di Roma Francesco Lo Voi
La frase con cui la presidente del Consiglio esordisce è: "Il procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi, lo stesso del – diciamolo – fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona, mi ha appena inviato un avviso di garanzia". Al di là dell'errore sul documento ricevuto, c'è quindi subito un attacco al pm che ha inviato l'atto. Come a suggerire che l'indagine sia già di per sé "di parte" perché la firma è dello stesso procuratore che ha indagato su un altro esponente del governo.
Il processo Open Arms al ministro Salvini non è stato gestito solamente da Lo Voi (che all'epoca era procuratore a Palermo). Un giudice per le indagini preliminari e un giudice per l'udienza preliminare hanno dato il via al procedimento, che poi si è concluso in primo grado con l'assoluzione perché il fatto non sussiste. Per di più, il pm che iscrisse Salvini nel registro degli indagati non fu Lo Voi, ma il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Poi la procedura passò a Palermo, e Lo Voi chiese al Tribunale dei ministri di procedere.
Ma soprattutto, Lo Voi nella vicenda del caso Almasri si è limitato a svolgere la procedura prevista. L'unica altra possibilità a sua disposizione, come detto, era considerare "manifestamente infondate e fantasiose" le accuse. La denuncia avrebbe potuto anche essere depositata in una procura diversa da quella di Roma. In questo caso, se il pm avesse valutato che non era completamente campata per aria, l'iter sarebbe stato lo stesso.
Questo toglie fondamento anche alle rivendicazioni con cui Meloni chiude il video: "Non sono ricattabile, non mi faccio intimidire. È possibile che per questo sia invisa a chi non vuole che l'Italia cambi e diventi migliore, ma anche e soprattutto per questo intendo andare avanti per la mia strada (…) senza paura". Non si capisce di chi dovrebbe avere paura, dato che finora i fatti raccontano di una semplice denuncia depositata, un'indagine non aperta e una comunicazione tecnicamente routine dal pm.
L'attacco a Luigi Li Gotti, "politico di sinistra vicino a Prodi"
La comunicazione della Procura è arrivata, continua Meloni, "a seguito di una denuncia che è stata presentata dall'avvocato Luigi Li Gotti, ex politico di sinistra, molto vicino a Romano Prodi, conosciuto per aver difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi". Un attacco, ancora una volta, per sminuire la persona che ha denunciato e associarla alla sinistra, a Prodi (già bersaglio della premier), addirittura alla mafia.
Le parole di Meloni sono vere solo in parte. Definire Li Gotti un "ex politico di sinistra" può sembrare corretto considerando che ha fatto un mandato da senatore (dal 2008 al 2013) con l'Italia dei valori, partito dell'ex magistrato Antonio Di Pietro, schierato con il centrosinistra. Ma andrebbe detto anche che lo stesso Li Gotti, classe 1947, ha iniziato la sua carriera politica con il Movimento sociale italiano, di cui è stato segretario di federazione e consigliere comunale a Crotone. Poi ha proseguito con Alleanza nazionale, lo stesso partito di Meloni. Solo nel 1998 è uscito da An, per passare nel 2002 all'Italia dei valori.
È "molto vicino a Romano Prodi"? È stato sottosegretario alla Giustizia nel suo governo dal 2006 al 2008, su scelta di Di Pietro, vero. Ma è anche vero che la senatrice del Pd Sandra Zampa, personalmente vicina da anni a Prodi (lei sì), ha subito chiarito che tra i due non ci fu alcun legame particolare e che dal 2008 in poi non si sono più sentiti.
Per quanto riguarda la sua attività da avvocato, Li Gotti ha difeso Tommaso Buscetta, Giovanni Brusca e altri pentiti della mafia (persone che comunque hanno diritto a una difesa legale, come tutti). Si può aggiungere che ha rappresentato anche famiglie delle vittime della strage di piazza Fontana e quelle dei membri della scorta di Aldo Moro uccisi dalle Brigate rosse
L'accusa poco chiara alla Corte penale internazionale
Meloni parla poi della sostanza: il caso Almasri. Prima dice che "curiosamente, la Corte" penale internazionale ha emesso il mandato d'arresto "proprio quando questa persona stava per entrare sul territorio italiano dopo che aveva serenamente soggiornato per circa 12 giorni in altri tre Stati europei". Sembra quindi suggerire che la Cpi si sia mossa così per mettere in difficoltà l'Italia.
Perché in difficoltà? Probabilmente perché l'Italia è legata da anni alla Libia con un accordo sulla gestione dei migranti, e l'arresto di Almasri avrebbe creato un imbarazzo politico-diplomatico. Ma la premier non lo chiarisce. E quindi non si vede perché la tempistica del mandato d'arresto sarebbe "curiosa".
Le responsabilità del ministro Nordio e del governo sulla liberazione di Almasri
Meloni continua: "La richiesta di arresto della Corte penale internazionale non è stata trasmessa al ministero italiano della Giustizia, come previsto dalla legge, e per questo la Corte d'appello di Roma decide di non procedere alla sua convalida". Qui la presidente del Consiglio ‘gioca' con le parole, perché fa sembrare che a non trasmettere la richiesta sia stata sempre la Corte. Ma non è così.
In un comunicato, infatti, la Corte ha detto esplicitamente che il 18 gennaio ha "richiesto l'arresto del sospetto a sei Stati, inclusa la Repubblica italiana. La richiesta della Corte è stata trasmessa tramite i canali designati da ciascuno Stato, ed è stata preceduta da consultazione e coordinamento con ciascuno Stato per assicurarsi che la richiesta fosse accettata e messa in atto nel modo appropriato". Insomma, l'Italia era informata.
Chi non ha informato il ministero della Giustizia, invece, è stata la Digos di Torino. La Questura ha applicato una procedura sbagliata, diversa da quella prevista per i mandati di arresto internazionale. L'iniziativa avrebbe dovuto arrivare dal ministero della Giustizia, che però non si è mosso.
La Corte d'appello di Roma ha dovuto prendere atto che l'iter era stato scorretto e non convalidare l'arresto. I giudici romani prima però hanno provato a contattare il ministro della Giustizia, per trovare una soluzione. Ma non hanno avuto risposta, per più di 24 ore. Un fatto che il ministro Nordio non ha mai chiarito, finora. Tecnicamente, sarebbe bastato aggiustare il tiro, far partire la procedura corretta per l'arresto internazionale, e con tutta probabilità si sarebbe potuto trattenere Almasri in Italia.
La decisione di rimpatriare subito il generale libico
"A questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano, piuttosto che lasciarlo libero noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente, per ragioni di sicurezza. Con un volo apposito, come accade in altri casi analoghi". Questo è il secondo passaggio in cui Meloni sostanzialmente afferma che il suo governo non ha avuto nessuna responsabilità politica nella vicenda. Di fatto, dice che riportare Almasri è stata l'unica soluzione possibile, e che l'alternativa sarebbe stata "lasciarlo libero" e pericoloso in Italia.
Anche in questo caso, però, non è vero che non ci fossero alternative a questa soluzione. Dopo che il ministero della Giustizia non si è mosso sul caso per giorni (Elmasri è stato arrestato la notte tra il 18 e il 19 gennaio e scarcerato il 21), quello dell'Interno è stato rapidissimo a decretare l'espulsione e organizzare il rimpatrio del generale libico. Il giorno stesso un aereo dei servizi segreti prima è volato da Roma a Torino, dove era incarcerato, e poi da Torino a Tripoli.
Naturalmente, ci sarebbero state altre soluzioni politiche per trattenere una persona su cui pende un mandato di cattura internazionale. Prima di tutte, come detto, attivare le procedure per l'arresto, anche dopo la sua prima scarcerazione. Invece Almasri è tornato in Libia, dove in pratica gode di completa immunità. Una decisione politica di cui il governo Meloni non ha ancora reso conto al Parlamento e, più in generale, ai cittadini.