Venti mesi fa il Movimento 5 Stelle otteneva circa il 34% alle Elezioni Politiche, eleggendo 112 senatori e 221 deputati. Oggi, dopo aver ratificato l’espulsione di Gianluigi Paragone, i grillini attraversano una crisi senza precedenti, incastrati in una alleanza di governo nella quale non credono e divisi in correnti e fazioni come e peggio delle forze politiche che hanno combattuto fin dalla nascita. Come se non bastasse, alle ricorrenti polemiche sulle restituzioni, sul finanziamento e sul ruolo della Casaleggio associati, si è aggiunta la diatriba sulla leadership, questione nuovissima e legata ai concetti di appartenenza e identità, mai così fluidi e confusi come in questo momento. Per farla breve, il rischio che il Movimento 5 Stelle diventi tutto ciò che ha sempre combattuto non è mai stato così concreto.
Non è semplice capire cosa sia successo in questi mesi, stante la complessità dello scenario politico e la pressoché totale assenza di linearità nelle scelte operate da quasi tutti i partiti italiani in questi mesi. Ci sono però una serie di questioni che possono essere analizzate come segnali di una crisi che è prima di tutto strutturale, identitaria, ideologica. Le elezioni del 4 marzo 2018 sono lo spartiacque, perché il trionfo di Luigi Di Maio reca con sé due concetti destinati a cambiare per sempre il Movimento Cinque Stelle: centralità e responsabilità. I grillini sono centrali perché senza di loro non c’è governo e diventano responsabili della stabilità dell’intero sistema politico e istituzionale italiano. È un paradosso che cambia tutto: la forza nata per abbattere il sistema è l’unica in grado di conservarlo e Luigi Di Maio, Beppe Grillo e Davide Casaleggio scelgono di farlo, costi quel che costi. La politica dei due forni pur di andare al governo, se ci pensate, è l’esatto opposto del “mai alleati con nessuno” che era la ragion d’essere dell’intero progetto di Grillo e Casaleggio padre: il Movimento nato per costruire una nuova politica intorno a concetti come la democrazia diretta, l’uno vale uno, il culto della Rete, la non necessarie delle singole personalità politiche, l’assenza di leader, la valorizzazione dei territori e del metodo assembleare. Un controsenso non mitigato dalla scelta comunicativa di puntare sul “programma da realizzare con chi ci sta”, proprio perché era chiaro a tutti fin dall’inizio come si trattasse di un artificio retorico che non avrebbe oscurato la mutazione strutturale della forza “fieramente populista” (oltre che di una forzatura, stante la pochezza del programma elettorale grillino e il rischio di un annacquamento delle rivendicazioni nel caso di alleanza con un’altra forza politica).
L’abbraccio con la Lega era stato poi un colpo decisivo alla purezza dei Cinque Stelle. Con un alleato del genere e con la scelta di Giuseppe Conte, non abituato alle dinamiche di certi ambienti, Di Maio e gli altri si sono trovati a vestire i panni dei “responsabili”, accantonando la forza propulsiva della contestazione sistemica e portando a definitivo compimento il processo di istituzionalizzazione del Movimento 5 Stelle. Per mesi i dirigenti grillini si sono illusi di poter tenere le redini di governo, gruppi e partito lasciando a Matteo Salvini l’iniziativa politica, dentro e fuori le stanze del potere, e puntando sulle “cose fatte dal governo”. Una linea debole, che si scontrava tanto con la percezione tanto degli elettori governisti (che non hanno esitato a salire sul Carroccio alla prima occasione) quanto di quelli storici, che hanno ingoiato rospi su rospi, digerito modifiche a prassi e regolamenti, subito una costante marginalizzazione nei processi decisionali e sopportato a fatica la lenta e costante sovrapposizione delle figure dei politici di professione a quella dei militanti comuni del Movimento. Che, diciamolo chiaramente, nei mesi dell’abbraccio con Salvini si era perso. Lo spiegava Roberto Fico in modo chiarissimo:
In pochissimo tempo abbiamo fatto dei passi da gigante, probabilmente molto impegnativi rispetto all’essere un movimento molto giovane. Su tanti temi è necessario individuare una strada, riflettendo e ragionando in profondità. Ed è proprio per questo che abbiamo bisogno di costruire un percorso identitario forte, con valori e principi sempre più chiari e saldi che nessuno potrà mai calpestare. Né all’interno né all’esterno. L’identità è ciò che ti permette di non perdere mai la rotta anche se attraversi una tempesta. E allora anche la mediazione e il compromesso, che in una repubblica parlamentare vanno cercati, avranno confini altrettanto saldi, chiari e accettabili.
Quota 100, il reddito di cittadinanza, qualche buona azione di ministri competenti: poco altro da mettere sulla bilancia, specie se dall'altro lato ci sono Salvini al 34%, il tonfo delle Europee, il caso Diciotti, i porti chiusi, il TAP, la TAV e via discorrendo.
La crisi di governo e l'alleanza col Partito Democratico
La crisi del Papeete ha liberato i 5 Stelle dall’abbraccio con Salvini, ma ha scoperto definitivamente le contraddizioni del percorso intrapreso sotto la guida di Luigi Di Maio. Dopo mesi di subalternità all’alleato leghista, dopo aver lasciato per strada la metà dell’elettorato, dopo aver sacrificato tutti i totem storici (l’uno vale uno, il doppio mandato, le alleanze) in nome della conquista del Palazzo, dopo aver contribuito alla crescita politica di Conte (un leader “mai grillino e sempre stato di sinistra”), dopo compromessi, spartizioni e mediazioni in stile prima Repubblica, i Cinque Stelle si sono trovati con le spalle al muro e, per la prima volta nella loro storia, terrorizzati dalla prospettiva di andare al voto (anche per la consapevolezza della non replicabilità del 4 marzo e della certa rinuncia ai due terzi della rappresentanza parlamentare). La dinamica della crisi e la soluzione trovata (su cui per la verità eravamo stati facili profeti) hanno paradossalmente complicato le cose, perché hanno compromesso la leadership della classe dirigente e caricato lo stesso Luigi Di Maio di colpe non sue (peraltro è noto che l’attuale ministro degli Esteri non sia uno dei maggiori teorici del compromesso col PD).
La questione è tutto sommato semplice. Da un momento all’altro i dirigenti 5 Stelle si sono trovati a dover dire (di nuovo!) ai propri elettori, ai militanti e a parte degli eletti che tutto ciò in cui avevano sempre creduto non valeva più. Che il PD non era il male assoluto, il peggio del peggio, la mafia, il vero nemico, ma un partito con cui portare il Paese fuori dalla crisi e realizzare il programma del Movimento 5 Stelle. Che le istituzioni europee non fossero più un covo di burocrati, tecnocrati e fannulloni, che il progetto europeo non dovesse più subire un cambiamento radicale e immediato, ma che la UE tutto sommato potesse essere alleata del popolo italiano. Operazione non semplicissima, dopo anni e anni di bombardamento comunicativo, soprattutto se assieme al PD e all'Europa devi caricarti anche l'altro nemico assoluto, ovvero Matteo Renzi. Che la scelta fosse obbligata o meno, che l'alternativa fosse il regno salviniano, che il governo fosse utile o meno al Paese, contava tutto relativamente poco: sei al governo con Renzi, col PD, con l'appoggio di Macron e Merkel, e sai benissimo che i margini di manovra per cambiare l'Italia sono strettissimi, che le risorse sono poche e che l'alleanza può rompersi da un momento all'altro.
Il caso Paragone non può essere letto al di fuori di questo contesto. Il giornalista era da tempo diventato il punto di riferimento di un ampio gruppo di elettori ed eletti che non si riconosceva non tanto nel processo di istituzionalizzazione del Movimento (cominciato, lo ripetiamo, durante il Conte I), quanto nell'idea di una alterità con la comunità salviniana in funzione della costruzione di una alternativa moderata e "di sistema" alla Lega. Un'area che, si badi bene, è molto più ampia di come suggerirebbero i numeri in Parlamento (tra espulsi e transfughi), proprio perché poggia su una comunicazione decennale che va nel senso opposto: quello della "radicale differenza" col PD, col centrosinistra e, soprattutto, con parte dell'elettorato di quell'area. Paragone, che pure aveva firmato un discutibilissimo codice in cui si impegnava a votare la fiducia, ha ragione nel rivendicare la sua coerenza rispetto alla linea tenuta dal M5s negli ultimi anni, soprattutto in materia di politica economica e di strategia parlamentare. E la posizione di Alessandro Di Battista può stupire solo chi non segue le dinamiche interne alla dirigenza 5 Stelle, mai così spaccata. La desolante sconfitta in Umbria e l'ancor più desolante percorso che ha portato alla separazione in Calabria ed Emilia Romagna sono segnali inequivocabili dello stato di impotenza in cui versa un gruppo dirigente "costretto" a raccontarsi la favoletta del governo del fare per il bene del Paese e sempre più isolato dal resto dell'elettorato grillino. La gestione del caso Fioramonti e lo stillicidio di defezioni, poi, evidenziano come manchi una prospettiva di ampio respiro, che costringe a una continua rincorsa del presente, a mediazioni estenuanti e depotenzia ogni rivendicazione. Non cosa da poco, se si pensa che nei primi mesi del 2020 si dovrà ragionare nuovamente di riforme istituzionali, di prescrizione, di quota 100, reddito di cittadinanza, banche.
Il ruolo di Giuseppe Conte e il futuro del M5s
In molti hanno ipotizzato che Luigi Di Maio non abbia apprezzato la dichiarazione con la quale Giuseppe Conte anticipava la volontà di restare in politica in ogni caso. Nello scenario che abbiamo descritto, in effetti, il Presidente del Consiglio è riuscito a ritagliarsi uno spazio importante, presentandosi come il vero antagonista del suo ex vice Matteo Salvini (sfruttando la memoria scarsissima di cittadini e analisti, che hanno cancellato in fretta mesi di “decisioni condivise” e di reciproche pacche sulle spalle). L’idea che Conte rompa gli indugi ed emerga come leader principale del Movimento 5 Stelle è piuttosto condivisa (anche se personalmente mi chiedo che senso avrebbe per Conte ridimensionare le proprie ambizioni, stante la totale assenza di competizione nell’intero campo del centrosinistra). La sua figura è però legata a doppio filo a questo esperimento di governo, che presenta diverse complessità (eufemismo) e un equilibrio piuttosto precario (altro eufemismo). Delle due l’una: o si va convintamente verso un nuovo bipolarismo (e M5s, PD, renziani e chi ci sta accettano in campo aperto di combattere la madre di tutte le battaglie contro la destra sovranista), oppure si lavora scientemente alla frammentazione del quadro politico (legge elettorale, correttivi alla riforma costituzionale, elezione del nuovo Presidente della Repubblica con questa maggioranza) e si tenta di replicare nuovamente questo accrocchio di governo puntando su Conte e simili servitori del Paese. Più arduo invece, ipotizzare un golpe interno e la rinuncia al ruolo di "responsabilità" che Grillo ha ritagliato recentemente intorno a Di Maio e al gruppo dirigente grillino. Tradotto: il tempo di Di Battista pare ancora lontano.
[In ogni caso, però, sarebbe un errore sottovalutare i 5 Stelle, che già negli scorsi anni hanno dimostrato di possedere risorse insperate e di saper speculare sulle lacune degli altri partiti]