
Date le circostanze, c’è grande interesse, non solo in Italia, per il viaggio di Giorgia Meloni a Washington. Un appuntamento che coincide con il complesso avvio delle trattative negoziali tra Usa e Ue sui dazi, sostanzialmente in stallo perché, come ha confermato il portavoce di Marcos Sefcovic, commissario europeo al Commercio, finora è mancata qualunque contro-proposta statunitense all’offerta negoziale europea. Siamo fermi, insomma, all’idea che si possa ragionare intorno ai “dazi zero” su determinati settori e a un ridefinizione della capacità produttiva su altri. Nel frattempo, si susseguono gli annunci e le smentite su modifiche in settori cruciali come quelli dei farmaci, delle auto, dei semiconduttori.
In questo senso, il viaggio di Giorgia Meloni può rappresentare un aiuto per una trattativa complessa e contribuire ad allentare la tensione? Non è così semplice, perché la questione è più intricata di come la propaganda di Palazzo Chigi intende raccontarla. La ragione risiede nell’ambiguità di fondo con cui la nostra presidente del Consiglio sta gestendo il suo posizionamento in questa delicatissima situazione. Dopo aver difeso l’inusitato attacco di JD Vance alle istituzioni europee, aver schiacciato la linea italiana su quella della nuova amministrazione statunitense ed essersi defilata in modo piuttosto discutibile dai tavoli in cui gli alleati europei ragionavano della linea comune sull’Ucraina, Giorgia Meloni sembrava aver davvero scelto di essere la quinta colonna trumpiana in Europa. Nel complesso progetto della destra statunitense di indebolire la costruzione europea e ridefinire un passo alla volta i meccanismi delle democrazie liberali, la leader di Fratelli d’Italia era un perfetto agente sabotatore, in grado di esercitare una pressione costante sui decisori di Bruxelles e orientarne l’agenda.
Le scelte di Donald Trump in politica economica hanno rallentato questo avvicinamento e Meloni si è trovata in una posizione scomodissima con i partner europei e all'interno della propria coalizione. Per giorni ha tergiversato, stretta tra chi le chiedeva di gettare il cuore oltre l'ostacolo, rompendo l'unità europea e provando a negoziare condizioni migliori per la sola Italia, e chi invece la invitava a riflettere e a usare un minimo di cautela, anche in considerazione dell'imprevedibilità delle mosse statunitensi. Mentre la presidente si eclissava e da Chigi si provava a gestire la vicenda solo sul piano comunicativo, con improbabili spin del tipo "non possiamo sostenere una guerra commerciale con gli USA, occorre trattare" (come se i dazi li avessero messi Macron e Sanchez…), la realtà si è semplicemente imposta, mettendo il nostro governo di fronte a un fatto indiscutibile: al momento, la possibilità di andare da soli, senza la coralità Ue, semplicemente non esiste. Non solo perché vorrebbe dire presentarsi al tavolo negoziale ulteriormente indeboliti, ma anche per ragioni tecniche, legali, diplomatiche e via discorrendo.
In questo contesto, il viaggio a Washington sembra poter assumere un altro significato. Pur con tutte le cautele del caso (e, a quanto dicono a Bruxelles, senza nemmeno fidarsi più di tanto), quella di Meloni è una sorta di “missione per conto Ue, sotto stretta sorveglianza”. Lo ha fatto capire la portavoce della Commissione Europea Podestà ai giornalisti: von der Leyen “è favorevole” alle azioni dei Paesi membri volte a contribuire alla risoluzione della questione, ma “le coordina da vicino”, anche in considerazione del fatto che ci sono dei trattati che disciplinano tale ambito. Detto in parole povere: con Trump tratta la Commissione, ogni intesa negoziale deve passare per i canali ufficiali ed essere avallata dall’esecutivo europeo e dai governi.
La vicinanza tra Trump e Meloni può aiutare nel rebus dazi?
Dunque, la domanda che dobbiamo porci è quanto e come possa influire la consonanza ideologica, politica e personale tra Meloni e Trump per normalizzare le relazioni tra Usa e Ue, contribuendo a sbrogliare la matassa dazi.
La risposta non è semplicissima, anche provando ad andare oltre l’imprevedibilità e la (presunta) umoralità della gestione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Finora l’Unione Europea ha scelto una doppia linea di trattative: proporre l’azzeramento dei dazi reciproci, agitando però lo spettro dell’introduzione di misure ritorsive specifiche. È il gioco delle parti, chiaramente: da una parte mi mostro conciliante, faccio autocritica e dichiaro la massima disponibilità a rivalutare delle scelte, dall’altra ti faccio capire che posso fare sul serio e ho carte da giocare. Funziona così, sempre, tanto che la sospensione dei novanta giorni non deve essere interpretata come un segno di debolezza di Trump, quanto piuttosto come parte della commedia.
Che si arrivi o meno allo showdown, dipende da tanti fattori. Uno di questi è la valutazione delle armi a disposizione, un altro è la compattezza del fronte dei negoziatori. Perché ogni minaccia europea di colpire selettivamente gli interessi americani, di ridisegnare il mercato degli scambi a livello globale con accordi di liberalizzazione con altri Paesi, di porre l’euro come moneta alternativa (accelerando il processo di de-dollarizzazione) o di impostare tasse specifiche per le aziende europee che investono direttamente negli Stati Uniti, per essere credibile deve essere potenzialmente attuabile. Servono compattezza, buonsenso, diplomazia. Ecco, il vertice di Washington non sarà risolutivo e non potrebbe esserlo (diffidate dal modo in cui verrà raccontato…), ma può rappresentare un tassello importante in una discussione complessa.
In questo senso, il ruolo di Meloni è importante. Perché può contribuire certamente ad allentare la tensione, ma può anche mostrare al presidente statunitense la compattezza e la serietà della linea europea. Tenere conto della portata del cambiamento globale impressa dal tycoon newyorchese, senza subirlo passivamente, ma provando a governarlo, per mettere in sicurezza le relazioni commerciali e il benessere dei cittadini. Del resto, la piattaforma programmatica della nuova Commissione von der Leyen si muove in questo contesto e, in fin dei conti, è già un compromesso al ribasso con ampie concessioni al "nuovo vento" che soffia da destra sull'Europa.
[Per inciso, l'intera questione dovrebbe essere un'ulteriore presa di consapevolezza per Meloni di quale sia il posto dell'Italia nel nuovo mondo, tra autocrazie, cesarismi e democrazie pienamente liberali. Ma su questo punto, concedeteci di essere più pessimisti.]
