video suggerito
video suggerito
Covid 19

Cosa dice lo studio sulla scuola che ha condizionato le decisioni del governo sulle riaperture

L’epidemiologa Sara Gandini ha spiegato a Fanpage.it i risultati dello studio sulla scuola che è stato pubblicato dalla rivista scientifica ‘Lancet Regional Health – Europe’, e che ha condizionato le scelte del governo sulla riapertura degli istituti scolastici in zona rossa, fino alla prima media: “Se noi chiudiamo le scuole dove finiscono i ragazzi? Se la mattina sono in dad non possiamo murarli in casa nel pomeriggio”.
A cura di Annalisa Cangemi
614 CONDIVISIONI
Immagine
Attiva le notifiche per ricevere gli aggiornamenti su

Sta facendo discutere molto in questi giorni un articolo pubblicato lo scorso 26 marzo su ‘Lancet Regional Health – Europe', uno dei tanti prodotti editoriali che gravitano attorno alla galassia di Lancet, tra le più prestigiose riviste scientifiche al mondo. Si tratta di uno studio, di cui Fanpage.it ha già dato conto, che mostra come le scuole italiane siano un luogo sicuro, e la loro riapertura potrebbe anzi servire a contenere la diffusione del virus. In particolare la ricerca ha analizzato i dati del ministero dell'Istruzione dal 14 settembre al 7 novembre sul 97% delle scuole italiane, e cioè oltre 7,3 milioni studenti e 770mila insegnanti.

Gli scienziati che hanno firmato la pubblicazione sono l’epidemiologa Sara Gandini, direttrice dell'unità di farmaco-epidemiologia molecolare dello IEO di Milano, Maurizio Rainisio, Maria Luisa Iannuzzo, Federica Bellerba, Francesco Cecconi e Luca Scorrano. Se ne sta parlando adesso perché durante la conferenza stampa di venerdì il presidente del Consiglio Draghi, per motivare la riapertura delle scuole fino alla prima media dopo Pasqua anche in zona rossa, ha fatto riferimento a “evidenze scientifiche”, che dimostrerebbero che “fino alla prima media le scuole di per sé non sono fonte di contagio, quello che lo è, è quello che c’è attorno alla scuola, e più l’età si alza e più le attività aumentano”. Draghi non lo dice chiaramente, ma probabilmente il riferimento è al report sulla scuola che la scienziata Sara Gandini ha presentato il giorno prima al ministero dell’Istruzione, alla sottosegretaria Barbara Floridia, al ministro Bianchi e al Cts.

"Se noi chiudiamo le scuole dove finiscono i ragazzi, soprattutto quelli più grandi? Se la mattina sono in dad non possiamo murarli in casa nel pomeriggio", dice Gandini, contattata da Fanpage.it. "A scuola sarebbero in un luogo protetto, con regole precise. Gli studenti manterrebbero la loro socialità e poi potrebbero stare a casa. Paradossalmente il rischio aumenta con le scuole chiuse, perché fuori i contagi continuano a verificarsi, semplicemente non li individuiamo. A un anno dalla pandemia la soluzione non è chiudere le scuole, ma potenziare il tracciamento nelle Regioni".

È lo stesso Iss del resto a dire che le scuole continuano ad essere i luoghi in cui il contagio avviene meno rispetto ad altri ambienti. Gli studi fatti sui protocolli all'estero dimostrano che la strategia più efficace per consentire il ritorno in classe per tutti gli studenti è il controllo sui sintomi: "Devono essere le famiglie per prime a evitare che il figlio vada a scuola se ha i sintomi del SARS-CoV-2", suggerisce Gandini.

Le critiche alla rivista che ha pubblicato l'articolo

L’articolo in questione è stato attaccato anche perché la rivista su cui è uscito, ‘Lancet Regional Health – Europe’, è stata giudicata meno autorevole del più famoso Lancet. Il giornalista scientifico Sergio Pistoi, laureato in scienze biologiche all’università di Torino, con un dottorato in Biologia molecolare all’Université Pierre et Marie Curie di Parigi, in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook ha definito la rivista "uno dei tanti sottoprodotti del gruppo Lancet, che ha dozzine di testate. Una rivista di bassissimo impatto". Per valutare la ‘qualità' di una rivista scientifica si guarda in genere il suo ‘impact factor', un indicatore che misura il numero medio di citazioni ricevute in un particolare anno dagli articoli pubblicati in una rivista scientifica nei due anni precedenti (Il valore dell'impact factor si ottiene dal rapporto tra il numero di citazioni ricevute in un particolare anno da articoli pubblicati in una rivista scientifica nel biennio precedente e il totale degli articoli usciti sulla rivista del biennio precedente). Se ‘Lancet' nel 2019 ha un impact factor di 60,392, altissimo, per ‘Lancet Regional Health – Europe’, pubblicato dallo stesso editore, Elsevier, non è ancora possibile calcolare l'impact factor perché la rivista scientifica è stata lanciata solo nel 2020, l'anno scorso.

Un'altra critica mossa agli studiosi è che abbiano dovuto pagare la rivista per poter pubblicare l'articolo: è stato adombrato il sospetto che in questo caso ci troviamo davanti a una ‘pubblicazione predatoria', una prassi che prevede la pubblicazione di articoli accademici, che in genere sono ‘open access', dietro compenso e dunque con pochi controlli. Non solo gli autori hanno riferito che è stato lo stesso editore di Lancet a proporre la pubblicazione su ‘Lancet Regional Health – Europe’, ma le ‘tasse' si pagano anche per altre importanti riviste scientifiche. Per fare un esempio ‘Nature Communications' (una delle tante riviste affiliate a Nature), che è una rivista scientifica peer-reviewed, ad accesso aperto, chiede 4530 euro per le ‘spese di elaborazione dell'articolo'. Il fatto che gli scienziati abbiano pagato non dà una prova insomma della scarsa qualità della rivista scientifica. Sgombrato il campo dai dubbi sull'affidabilità della rivista su cui è apparsa la ricerca possiamo concentrarci sul contenuto.

Piccola nota a margine sull'autrice. Come è possibile misurare l’attendibilità di uno scienziato e il suo grado di influenza? Su Scopus, banca dati citazionale dell’editore Elsevier, che contiene produzione scientifica peer-reviewed, citazioni bibliografiche, abstract e dati bibliometrici (cioè gli indici che permettono di valutare quantitativamente l'impatto della ricerca all'interno della comunità disciplinare di appartenenza), l’epidemiologa Sara Gandini dell’Istituto Europeo di Oncologia ha un H-Index di 54, un valore alto che significa che almeno 54 articoli dell’autrice hanno ricevuto almeno 54 citazioni (più alto è quest’indicatore e più rilevante è l’impatto dell’autore all’interno della comunità scientifica).

Cosa dice lo studio

Come dicevamo la decisione del governo di tenere aperte le scuole italiane è stata supportata da dati scientifici. L'analisi parte dai mesi della seconda ondata (settembre-dicembre): gli esperti hanno calcolato l’incidenza dei nuovi soggetti SARS-CoV-2 positivi nel periodo e per settimana, relativamente al numero di studenti delle scuole del primo ciclo (elementari e medie), secondo ciclo (superiori) e personale scolastico (docente e non docente), confrontandoli con l'incidenza nella popolazione di ogni Regione. Secondo lo studio l'incidenza di positivi tra gli studenti è inferiore a quella nella popolazione generale. I risultati dicono che se la media è 108 su 10mila, nelle scuole primarie e secondarie di primo grado è stata di 66 su 10mila, mentre nelle scuole superiori 98 su 10mila.

Gandini spiega a Fanpage.it quali erano gli obiettivi della ricerca: "Volevamo indagare l'incidenza della positività al SARS-CoV-2 nelle scuole, nei vari livelli scolastici. Ci siamo chiesti se l'apertura e chiusura delle scuole fosse in qualche modo correlata con l'andamento della diffusione del virus e con la seconda ondata in Italia, e se i risultati italiani fossero in qualche modo compatibili con quello che avveniva all'estero. Poi volevamo cercare di analizzare i contagi all'interno delle scuole, capire se all'interno delle strutture c'è una diffusione del virus e avere dei dati affidabili sull'incidenza rispetto al numero di tamponi fatti. E infine volevamo capire chi contagia chi, se gli insegnanti sono contagiati dai ragazzi o se i docenti si contagiano tra loro". Da quanto è emerso dallo studio avviene più frequentemente il contagio da insegnante a insegnante.

"Abbiamo scoperto che i cluster, definiti come due soggetti che venivano individuati all'interno delle scuole in seguito a un caso indice, erano tra il 5 e il 7% sul totale delle scuole italiane a fine novembre". Secondo il report tra gli insegnanti e il personale non docente l'incidenza è stata 2 volte superiore a quella osservata nella popolazione generale (circa 220 su 10.000): "È emerso che gli insegnanti si contagiano di più rispetto alla popolazione generale. Abbiamo fatto un confronto per età, abbiamo preso in considerazione la popolazione generale in una fascia che va dai 25 ai 65 anni, che di solito corrisponde all'età lavorativa. E abbiamo visto che non c'erano differenze statisticamente significative", sottolinea la scienziata.

"La maggiore incidenza negli insegnanti – spiega Gandini – può dipendere dal fatto che nelle scuole si fanno sempre più test per tracciamento nelle scuole rispetto ad altri luoghi professionali, si arriva anche a 100-200 tamponi per ogni caso indice in ogni settimana e in ogni scuola. E questo rende appunto le scuole uno dei luoghi più controllati. Ma tenere aperte le scuole implica uno sforzo di tracciamento importante, e per questo sono i primi luoghi a chiudere".

"Il numero di positivi rispetto al numero di tamponi fatti è sotto l'1% – aggiunge – confermando quello che è stato visto in altri studi, come quelli che sono stati condotti in Sicilia, dove è stato fatto uno screening a tappeto da novembre a marzo, in modo ripetuto nel tempo, indipendentemente dai sintomi. Lì si è anche osservato un calo. Analisi simili sono state condotte anche in Campania a marzo, con le scuole aperte".

Il problema della variante inglese

È vero che lo studio si ferma a dicembre, ma gli scienziati hanno continuato ad analizzare i dati messi a disposizione da alcune Regioni, come l'Emilia-Romagna, sostenendo che non ci sono evidenze scientifiche che la variante inglese si diffonda maggiormente nelle fasce d’età scolastiche. La validità della ricerca è stata messa in discussione proprio su questo punto, perché a fine 2020 non era ancora comparsa questa variante.

"I dati più affidabili sono quelli sul numero dei positivi rispetto al numero di tamponi fatti. Alcune Regioni forniscono questo tipo di informazioni. Per esempio in Toscana se prendiamo in considerazione il numero dei positivi rispetto al numero di tamponi fatti, per età (sotto i 18 e sopra i 18 anni ndr) e nel tempo, vediamo che nei giovani il numero dei positivi è sempre più basso rispetto agli adulti. E poi questo andamento non cambia da gennaio a marzo", sottolinea Sara Gandini.

Da gennaio a marzo il numero di tamponi effettuati è triplicato, soprattutto nelle scuole. Questo vuol dire che le classi di età non sono in realtà più confrontabili fra loro, i giovani sono praticamente sovraccampionati. "Dal confronto con la letteratura scientifica degli altri Paesi, in particolare con quella inglese, vediamo che è vero che la variante inglese è più contagiosa, ma i giovani si contagiano significativamente meno rispetto agli adulti e l'andamento della variante inglese è uguale a quello del virus precedente per quanto riguarda i confronti per età".

614 CONDIVISIONI
32834 contenuti su questa storia
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views