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Opinioni

Cosa ci sta dicendo la destra mentre piazza La Russa e Fontana ai vertici dello Stato

C’è un vuoto enorme nella società italiana, culturale e politico. La destra lo occupa con tutta la sua carica reazionaria e identitaria. Lo fa perché ritiene di averne la legittimità, ma anche perché di fronte ha l’opposizione più debole di sempre.
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Ignazio Benito Maria La Russa, ex missino e fiero collezionista di busti di Mussolini e cimeli del fascismo, è il nuovo presidente del Senato della Repubblica, tecnicamente la seconda carica dello Stato. Lorenzo Fontana, ex (?) ammiratore di Putin ed esponente dell’ultradestra conservatrice italiana, è il nuovo presidente della Camera dei deputati, la terza carica dello Stato. L’avvio della nuova legislatura ha i due volti della destra, quella storica rappresentata dal fondatore di Fratelli d’Italia e quella reazionaria, ultracattolica e sovranista del fedelissimo di Matteo Salvini. Un esito che va oltre ogni previsione, considerando la collocazione politica dei due eletti e il ritorno di immagine sul piano internazionale. Detto in altri termini, in pochi si aspettavano che la maggioranza scegliesse di orientare così nettamente verso l’estrema destra i primi passi della nuova legislatura.

È però interessante provare a capire perché i leader di maggioranza non si siano orientati su profili più istituzionali per gli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. Nessuno può pensare che Meloni, Salvini e Berlusconi non fossero consapevoli della forte carica simbolica e politica nell’indicare La Russa e soprattutto Fontana per cariche di garanzia e rappresentanza istituzionale. Evidentemente ci sono altre ragioni, rispetto a quelle di opportunità, che hanno avuto il sopravvento e pesato in modo determinante sulle scelte. E ci sono dinamiche differenti, che rimandano soprattutto alle tensioni interne alla coalizione che ha vinto le elezioni politiche.

Perché è stato eletto Ignazio La Russa

La partita per l’elezione di La Russa, a ben guardare, si è intrecciata con quella sulla formazione del nuovo governo. La frattura tra Berlusconi e Meloni è emersa con chiarezza in questi due giorni, al punto che Forza Italia ha deciso di non votare il candidato della coalizione, di abbandonare virtualmente il tavolo delle trattative sulla squadra di governo e di parlare apertamente di veti e promesse mancate. Come se non bastasse, Berlusconi si è fatto (lasciato?) riprendere dapprima mentre si lamentava platealmente proprio col nuovo presidente del Senato, poi mentre vergava su carta una serie di giudizi ben poco lusinghieri sul comportamento di Giorgia Meloni.

La Russa è stato eletto grazie al supporto di senatori dell’opposizione, o meglio, grazie alle relazioni che lui e i suoi fedelissimi hanno costruito e intendono costruire con rappresentanti di altri schieramenti. Una strategia che ha pagato e gli ha evitato di bruciarsi nelle prime votazioni: politica parlamentare al massimo livello, nulla di nuovo o di particolarmente sorprendente, non si trattasse del primo atto della maggioranza che ha vinto le elezioni. La Russa è prima di tutto un uomo che conosce perfettamente le dinamiche parlamentari, che è già stato vicepresidente del Senato (oltre che ministro) e rappresenta plasticamente l’immagine della destra che è già istituzionalizzata. La sua elezione è la prima bandierina piazzata dalla vecchia classe dirigente del centrodestra, che è riuscita a tornare presentabile grazie al trionfo di Giorgia Meloni, e che ora si sente legittimata a occupare tutti gli spazi. E pazienza se proprio nel centenario della marcia su Roma avremo come seconda carica dello Stato un cultore del fascismo. Anzi, siamo convinti che più di qualcuno ne ghignerà soddisfatto, in certi ambienti, senza doversi minimamente preoccupare della flebile reazione dell’opinione pubblica.

Perché è stato eletto Lorenzo Fontana

Piuttosto diversa la dinamica che ha portato all'elezione di Lorenzo Fontana, stavolta avvenuta col convinto supporto di Forza Italia. Si tratta di un nome indicato direttamente dal segretario della Lega Matteo Salvini, che gli alleati sono stati quasi costretti ad accettare senza colpo ferire. Il leader del Carroccio non è mai stato così in discussione: il flop elettorale e le disastrose scelte politiche post Papeete (lo strappo con Conte, l'appoggio a Draghi e la presenza / assenza nella partita del Pnrr) hanno ridato forza alle correnti interne che puntano alla sua destituzione. Salvini, che sta giocando una complessa e rischiosa partita sul Viminale, aveva la necessità di dare delle garanzie ai propri fedelissimi e la presidenza della Camera era l'obiettivo ideale. Berlusconi aveva infatti tutto l'interesse a rafforzare il leghista in ottica anti – Meloni e la leader di Fratelli d'Italia subiva la necessità di conservare le energie (e i veti) per la formazione dell'esecutivo. L'indicazione di Fontana non deve stupire, per il cerchio magico salviniano le "complessità" legate alla sua figura semplicemente non esistono.

Il punto interessante è proprio questo, il messaggio comune a due nomine che hanno dinamiche molto diverse. La destra italiana mette al vertice delle istituzioni due profili divisivi, che certamente non rappresentano un’offerta al dialogo per l’opposizione, ma che soprattutto configgono con quel racconto della coalizione moderata che tanti analisti hanno rilanciato soprattutto in campagna elettorale. È una destra che si sente legittimata a mettere esponenti conservatori o apertamente reazionari al vertice dello Stato. Lo fa in ragione del successo elettorale, ma anche della clamorosa debolezza di un’opposizione frammentata e litigiosa. Meloni, Salvini e Berlusconi sanno di avere di fronte l'opposizione più scialba di sempre, che sarà ininfluente per l'intera legislatura (se non addirittura un aiuto).

Una debolezza che la destra rintraccia anche nella capacità di mobilitazione dell’opinione pubblica, che ha metabolizzato non solo l’istituzionalizzazione dei post fascisti, ma anche la normalizzazione di messaggi omofobi, discriminatori e sessisti, spesso dietro il paravento di concetti come “identità”, “buonsenso”, “ritorno alle radici”. Una destra apertamente reazionaria, con una classe dirigente vecchia e imbolsita, è stata raccontata come moderata, o addirittura come antidoto al populismo. È bastata l'autenticità di Giorgia Meloni a far dimenticare a milioni di italiani passato e presente di un'intera coalizione. Stupirsi ora della centralità di figure come La Russa e Fontana è davvero paradossale.

Il problema, semmai, è che anni di destrutturazione culturale e di lento cedimento sul piano dei principi valoriali, hanno reso possibile non dico eleggere ma anche solo proporre come figura di altissimo profilo istituzionale un politico come Fontana, che elogia i nazisti di Alba Dorata, indossa magliette pro Putin e partecipa a rassegne anti-abortiste e oscurantiste.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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