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Cosa cambia con il nuovo decreto Albania e perché restano dubbi giuridici sul trasferimento dei migranti

Il governo ha stabilito l’inizio dei trasferimenti dei migranti irregolari in Albania a partire dal 31 marzo, attivando il centro di Gjader. Restano aperte però diverse questioni giuridiche: il consenso del migrante è necessario per il trasferimento? Il piano è compatibile con la normativa UE? Intanto, i Cpr italiani sono in gran parte vuoti e il costo dell’operazione resta elevato.
A cura di Francesca Moriero
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La data da segnare è il 31 marzo: quel giorno partirà infatti il primo trasferimento di migranti, considerati irregolari, dall'Italia all'Albania, nell'ambito dell'accordo siglato tra i due governi. Il centro di Gjader, che doveva essere utilizzato in passato per l'accoglienza di persone salvate in mare, ma che di fatto, fino a oggi è rimasto vuoto e inutilizzato, tornerà ora operativo come vero e proprio Cpr. Nonostante l'avvio del programma, non tutte le strutture previste saranno operative: Gjader potrà accogliere inizialmente solo 48 persone, mentre il più grande complesso di Shengjin, con una capienza di 880 posti, resterà inutilizzato per il momento.

Tutto accade in un contesto in cui, paradossalmente, i 10 Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) presenti in Italia risultano in gran parte vuoti, ospitando solo alcune centinaia di persone. Ma c'è poi un altro nodo fondamentale: secondo diversi esperti di diritto, una persona migrante destinata al rimpatrio potrebbe essere trasferito in uno Stato terzo solo se presta il proprio consenso, e non mentre si trova in stato di trattenimento. Questa interpretazione potrebbe, quindi, ancora una volta, creare nuovi ostacoli giuridici all'applicazione dell'accordo.

Il decreto del governo e le questioni giuridiche

Per rendere operativo il piano, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto composto da due soli articoli, con il quale si amplia la capacità di accoglienza del centro di Gjader: da 48 posti si passerà a 144. Questo si inserisce in un quadro più ampio che prevede l'ampliamento della rete dei Cpr italiani, con la costruzione di cinque nuove strutture, per un totale di circa 1.200 posti disponibili. Il decreto arriva però in un momento di incertezza normativa: entro l'estate, infatti, si attende una pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che dovrà esprimersi sulla compatibilità del piano con la direttiva 115 del 2008 sui rimpatri. Il regolamento europeo su immigrazione e asilo, che potrebbe incidere su questi trasferimenti, entrerà in vigore solo nel 2026; il Viminale, tuttavia, sostiene che il decreto non sia in contrasto con la normativa europea; secondo il Ministero dell'Interno, il trasferimento avverrebbe in una struttura prevista dalla legge italiana, con tutte le garanzie stabilite dalla normativa nazionale e comunitaria, e sotto la responsabilità dello Stato italiano.

Viene poi specificato che la permanenza dei migranti nei Cpr albanesi non potrà superare i 18 mesi. Il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha cercato di ridimensionare le preoccupazioni, ricordando che anche in Italia i migranti trattenuti in un Cpr possono essere trasferiti da una struttura all'altra, ad esempio da Milano a Caltanissetta, ma il punto sollevato dagli esperti di diritto riguarda però il trasferimento in uno Stato terzo, che potrebbe essere soggetto a regole diverse.

Le critiche del Tavolo Asilo e Immigrazione

Il Tavolo Asilo e Immigrazione, coordinamento di associazioni che si occupano di diritti dei migranti, ha espresso forti perplessità sull'intero progetto, sostenendo che si scontri con la direttiva UE sui rimpatri. Anche il governo sembra consapevole dei rischi legali: lo stesso ministro Piantedosi ha ammesso che l'iniziativa potrebbe essere ostacolata da ricorsi e questioni giuridiche; ma l'esecutivo è comunque deciso ad andare avanti, ritenendo che l'accordo sia sostenibile dal punto di vista legale. I trasferimenti dei migranti avverranno via nave o aereo, a seconda delle necessità logistiche e della distanza dalle strutture. Secondo il governo, l'operazione non comporterà "costi aggiuntivi" rispetto a quelli sostenuti per la gestione dei Cpr in Italia.

Costi e sostenibilità del piano

Uno degli aspetti più discussi riguarda l'effettiva utilità di trasferire i migranti in Albania: attualmente, circa il 50% delle persone trattenute nei Cpr italiani esce prima del rimpatrio, a causa della scadenza dei termini massimi di detenzione o della mancata proroga delle misure di trattenimento. Oltre a questo, emergono dubbi sulla convenienza economica dell'operazione. Ospitare i migranti a Gjader, rispetto quanto detto da Piantedosi, ha un costo superiore rispetto ai Cpr italiani e, in aggiunta, bisogna considerare le indennità di trasferta per il personale inviato in Albania. Il protocollo prevede poi che sia l'Italia a garantire le strutture sanitarie nei Cpr albanesi, mentre nei centri italiani l'assistenza è fornita direttamente dal Servizio sanitario nazionale. Questo solleva interrogativi su come il governo potrà rispettare la clausola di "invarianza finanziaria", ovvero l'impegno a non aumentare la spesa pubblica per il progetto.

Il nodo del consenso e il diritto d'asilo

Un altro elemento di criticità riguarda il consenso al trasferimento: secondo Silvia Albano, giudice del Tribunale di Roma ed esponente di Magistratura Democratica, la normativa UE stabilisce che un migrante destinato al rimpatrio può essere trasferito in un Paese terzo solo con il suo consenso. Il problema è che, in questo caso, il trasferimento riguarderebbe persone trattenute nei Cpr, quindi prive della libertà di movimento. Ulteriore complicazione si presenterebbe poi quando un migrante trattenuto decide di fare richiesta d'asilo: questo accade frequentemente e cambia radicalmente il quadro giuridico. Cosa significa? Significa che il richiedente asilo ha diritto a rimanere nel territorio italiano fino alla conclusione della procedura, salvo nei casi previsti per le procedure accelerate di frontiera; nel caso dei Cpr in Albania, non è chiaro quale normativa si applicherebbe, dato che il centro si trova fuori dai confini dell'UE. Resta poi aperta la questione della sicurezza giuridica dell'accordo: la Corte Costituzionale albanese ha stabilito che non c'è cessione di sovranità, il che significa che i centri di detenzione in Albania non sono considerati territorio italiano. Questo potrebbe creare problemi interpretativi, poiché, secondo il diritto europeo, un rimpatrio avviene solo quando un migrante viene allontanato dal territorio di un Paese membro.

L'avvio dei trasferimenti dei migranti in Albania segna certo un passo importante per il governo, dopo il fallimento precedente, ma restano numerosi interrogativi: il consenso del migrante sarà davvero necessario? Il progetto è conforme alla normativa europea? E soprattutto, ha senso sostenere costi superiori per una misura che non sembra risolvere il problema della gestione dell'immigrazione irregolare?

Mentre il governo va avanti con la sperimentazione, il dibattito resta aperto, e con esso il rischio che ricorsi e decisioni delle corti europee possano bloccare l'intero piano.

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