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Corse audaci e cuori puri, cosa si nasconde dietro la retorica di Giorgia Meloni ad Atreju

Il discorso di Giorgia Meloni ha seguito il solito canovaccio: retorica, strumentalizzazioni, vittimismo e deresponsabilizzazione. Tra omissioni e attacchi alla “sinistra”, la cosa più interessante è l’appello finale alla mobilitazione. Perché la presidente del Consiglio lo ha capito: non può governare da sola, ha bisogno del suo popolo.
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La parte più interessante del lungo discorso di Giorgia Meloni ad Atreju, la kermesse dei giovani di Fratelli d’Italia, è certamente la chiusura. In un crescendo dai toni quasi epici, la presidente del Consiglio ha ricordato ai suoi che “l’occasione è ora e non permette passi incerti, perché ha bisogno di corse audaci, non permette tentennamenti, perché ha bisogno di certezze, non permette debolezze perché ha bisogno di cuori puri e gambe ferme”. E ha concluso, prima di indossare la felpa della manifestazione e cantare l’inno di Mameli, con una vera chiamata a raccolta: “Ma io so che noi, anche più di quanto noi stessi crediamo, siamo all’altezza del compito, io so che l’Italia è all’altezza del compito”.

È un passaggio importante, perché rappresenta il tentativo di rilanciare quella mobilitazione di militanti, elettori e cittadini che ha permesso a Fratelli d’Italia di arrivare al governo del Paese e di diventare egemone nel centrodestra. Un concetto cruciale, in un momento piuttosto complesso per Meloni, alle prese con una manovra che si è complicata (di cui parla pochissimo nel suo discorso) e con la necessità di nascondere dietro slogan e vittimismo un bilancio piuttosto deludente in ambiti centrali per la vita quotidiana dei cittadini. Il piatto piange, sono passati ormai due anni e della svolta epocale promessa agli elettori non c’è traccia: non è un caso se nel suo discorso Meloni spinga molto sui dati dell’occupazione (positivi, quelli sì), rifugiandosi nei tecnicismi su pensioni e sanità ed evitando persino di nominare la scuola (se non per rispondere a una donna tra il pubblico con un laconico “stiamo facendo un buon lavoro”…) o i trasporti. Quando poi dice di aver “preso 3,6 miliardi” alle banche, persino la platea si mostra incredula: va bene tutto, ma fino a un certo punto…

Insomma, se sullo scacchiere internazionale le cose sembrano mettersi per il meglio (con l’onda dei conservatori alimentata dal terremoto Trump, dall’hype per Milei e dalla prospettiva di svolte imminenti in Francia e Germania), sul piano interno le cose si sono complicate non poco. Per la prima volta, infatti, Meloni sta avendo a che fare con una vera “contromobilitazione”. Nelle piazze, principalmente, come dimostra l’inatteso successo della manifestazione contro l’ennesimo scempio in materia di sicurezza. Ma anche nei luoghi di lavoro, con i sindacati che stanno contribuendo a mettere in crisi la particolare idea di gestione delle crisi e delle priorità del governo. Anche perché, nelle crisi industriali (da Ilva a Stellantis) l’apporto dell’esecutivo oscilla tra il fumoso e l’irrilevante. Se a ciò aggiungiamo gli intoppi su provvedimenti sui quali aveva investito molto in termini di credibilità politica, autonomia e centri in Albania su tutti, abbiamo un quadro preciso della situazione non semplicissima in cui è venuta a trovarsi Meloni.

In tal senso, il discorso di Atreju è un’ottima bussola per provare a orientarsi nel percorso che la leader di Fdi farà per uscire dall’angolo. Sul piano comunicativo, il metodo è sempre lo stesso: retorica, vittimismo, autenticità come succedaneo della competenza, deresponsabilizzazione. Un osservatore esterno che, a digiuno di politica italiana, avesse ascoltato alcuni passaggi del suo intervento, avrebbe avuto l’impressione di essere in un Paese governato dalla sinistra da decenni. Non c’è un solo campo d’interesse umano o un solo fatto recente della storia politica italiana su cui Meloni non veda in azione la longa manus della “sinistra”. Non c’è una sola responsabilità dei suoi sodali Salvini e Tajani negli anni di Draghi o del Conte I, neanche per gli atti da loro firmati e votati. Non c’è alcuna possibilità che Meloni si accodi alla schiera dei politici di professione, come se non avesse preso parte ai governi dell’era Berlusconi e fosse capitata a Chigi per caso, alla vigilia delle Politiche del 2022. Il dualismo elite/popolo sarà sempre un formidabile strumento retorico nei suoi interventi. Finché funziona, Meloni continuerà così, a raccontare un Paese che non c'è, a ricostruire la storia in modo strumentale, a confondere piani, livelli e responsabilità.

Però non può bastare, lo sa bene. Perché lei ha promesso una rivoluzione, che non può esaurirsi in una astratta dichiarazione d’intenti, quella di fare dell’Italia il laboratorio politico-ideologico della destra conservatrice europea. La stagione della mobilitazione, nella sua idea, non può esaurirsi una volta occupati i palazzi del potere. Tanto più se si dubita che in quei palazzi risieda il vero potere. Né è semplice abituarsi al dibattito sugli indici macroeconomici, alle battaglie degli zero virgola, alla perfetta continuità con le esperienze precedenti in politica estera e in parte economica.

Quello che ci dice Meloni nel suo discorso e nella sua pratica di questi mesi è che il cambiamento, questo cambiamento, non si auto-impone, ma richiede un impegno costante e continuo. Soprattutto, non può venire solo dall’alto, dall’azione di governo. Che anzi, può essere un’ostacolo alla penetrazione di certi messaggi. In tal senso, non dovremmo farci ingannare dalle banalizzazioni e dalle iperboli nel discorso dal palco di Atreju. È vero, i partiti da sempre si nutrono di momenti comunitari e di autocelebrazione. Ma qui siamo in presenza di una dimensione in parte diversa. La retorica (che attinge a un immaginario collettivo comune) è funzionale a uno scopo ben preciso: motivare e tenere "dentro", ricordare che il progetto non è sepolto in un cassetto della scrivania a Chigi, ma ha bisogno di tempi e luoghi diversi. Registri diversi, strumenti diversi, luoghi diversi per un obiettivo comune, che non può essere scisso dalla formazione di una nuova classe dirigente e dall'occupazione degli spazi del confronto politico e culturale.

La mobilitazione delle energie dal basso, con il coinvolgimento di militanti e simpatizzanti, insomma, resta cruciale nella visione del "potere" di Meloni e dei suoi fedelissimi. Ed è per questo che un’inchiesta come la nostra su Gioventù Nazionale ha fatto così male, tanto da meritarsi l’ennesimo attacco proprio in apertura di comizio. Perché è andata a evidenziare le contraddizioni e le storture (meglio, l’improponibilità sul piano politico) di chi in questa mobilitazione dovrà avere un ruolo importante, non fosse altro che per rendere moderne e attrattive idee stantie e oscurantiste. Perché ha mostrato con chiarezza cosa c'è dietro i "soldati politici" di Meloni.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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