Prima i numeri, poi le interpretazioni. La resa dei conti in Parlamento ha chiarito alcune questioni centrali: il governo Conte al momento non ha la maggioranza assoluta al Senato, lo scouting tra i senatori scontenti o incerti non è andato a buon fine e la fatidica soglia (161) non è stata raggiunta neanche grazie al voto dei senatori a vita e a 2 inattesi Sì di Forza Italia, il gruppo di Italia Viva è compatto e il carro dei costruttori non è ancora affollato. La fiducia del Parlamento nei confronti di Conte è ai minimi termini, perché, malgrado quanto si affannino a comunicare da Chigi e dalle sedi di PD e M5s, 161 non è un numero come un altro che si può raggiungere o meno senza ripercussioni sulla stabilità del quadro politico – istituzionale, ma la condizione minima per l'esistenza stessa di una maggioranza. In condizioni normali, un governo che ha 161 voti al Senato sarebbe dipinto come debole, traballante, inadatto. E, sempre in condizioni normali, un esecutivo con meno di 161 voti non esisterebbe nemmeno, anche considerando le difficoltà che incontrerebbe dal punto di vista operativo nelle Commissioni parlamentari.
Quindi sarebbe il caso di raccontare la realtà per quella che è: oggi nasce una sorta di governo di minoranza, che si regge praticamente solo sulla possibilità che Conte riesca a trovare nuovi alleati strada facendo, magari rimpolpando la pattuglia dei costruttori, dei responsabili o dei volenterosi, per usare termini in voga in questi giorni. Spiegava il professor D’Alimonte che i governi di minoranza si basano “sul principio delle convenienze reciproche”, perché devono convenire a chi lo fa ma anche a chi lo tollera. Ma può il principio di convenienza guidare un governo che è chiamato a salvare il Paese, quasi letteralmente?
I contiani ci hanno ricordato spesso che gli italiani non hanno compreso il perché della crisi e sono in larga maggioranza con Conte. Anche ammettendo che ciò sia vero (i sondaggi stranamente danno Salvini al 24, Meloni al 16 e il centrodestra vincitore in tutte le simulazioni), resta un punto ineludibile: l'alleanza che ha reso possibile il Conte II non esiste più e il governo che essa esprime non ha la maggioranza assoluta in Parlamento. Quanto queste condizioni possano andar bene al Quirinale non è dato sapere.
Intendiamoci, Giuseppe Conte ha tutte le ragioni per sentirsi imbarazzato nell'essersi dovuto presentare in Parlamento per cercare di tenere in piedi il suo governo in un momento così delicato. L’aver aperto una crisi in questo contesto e alla vigilia delle settimane più dure in assoluto nella lotta al coronavirus è imperdonabile e ingiustificabile, e non sarà semplice per Matteo Renzi uscirne. Molto più discutibile è l’exit strategy che lo stesso Conte ha impostato per risolvere il duello rusticano con Italia Viva, soprattutto per le conseguenze che potrebbe avere sulla stabilità del governo che verrà e sull’incisività dei provvedimenti che sarà chiamato ad adottare. Poteva rassegnare le dimissioni e recarsi al Colle, per poi provare a formare una nuova maggioranza, ha scelto di parlamentarizzare la crisi "senza" una vera copertura politica.
In effetti, Conte fin dall'inizio della crisi aveva manifestato l'intenzione di contarsi in Parlamento, restando fedele a questa linea di principio anche quando in molti gli consigliavano di trattare in sedi diverse. È stata una scelta coerente, di cui gli va dato atto, ma delle cui conseguenze ora non può che prendere atto. Ridursi a mercanteggiare un voto addirittura nel suo intervento di replica, provando a blandire ex Cinque Stelle, transfughi di Forza Italia o veri e propri dinosauri della politica italiana, è un ruolo che non meritava e che forse gli avrebbero potuto risparmiare. Con risultati finanche modesti: 156 sì, sommando senatori a vita e transfughi dal Misto e da Forza Italia, al punto che Renzi può anche rivendicare di "non aver fatto cadere il governo" (senza che sia chiaro come avrebbero reagito i suoi compagni di partito se avesse optato per il no del suo gruppo).
Per quanto paradossale possa sembrare, peraltro, il passaggio parlamentare non è servito a rispondere alle domande più stringenti legate alla crisi politica, ovvero: e adesso? Come si va avanti? Con quale maggioranza politica? Come saranno redistribuite le deleghe e riassegnate le poltrone di governo? Come influiranno le nuove stampelle della maggioranza sulla piattaforma politica dell'esecutivo?
Immaginare di guidare il Paese con una maggioranza raccogliticcia frutto di transfughi, trasformisti e doppiogiochisti è davvero un azzardo. Non prendere atto del fatto che la maggioranza non esista più e ostinarsi a trascinare il Paese in uno stillicidio di trattative e accordi sottobanco è invece politicamente colpevole. L'Italia non regge un governo così debole. Non ora. Serve uno sforzo di responsabilità, bisogna agire e operare nell'interesse esclusivo del Paese, mettendo da parte, se necessario, interessi di parte e conflittualità personali.