Il discorso del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte al Senato resterà come un evento del tutto peculiare nella storia del nostro Paese. A memoria, nessuno ricorda un attacco così duro ed esplicito di un Presidente del Consiglio al proprio vice e ministro dell’Interno, peraltro seduto a pochi centimetri e costretto persino a placare l’animo dei parlamentari leghisti. Conte ha parlato di quella leghista come di una “decisione oggettivamente grave che comporta conseguenze rilevanti per la vita politica, economica e sociale del Paese”. Per questo ha duramente biasimato Salvini, dandogli del traditore del contratto di governo e dell’opportunista politico: “Quando una forza politica si concentra solo su interessi di parte, non tradisce solo la vocazione più nobile della politica, ma finisce per compromettere l’interesse nazionale”. La stessa decisione di restare nel governo mentre si invocava la sfiducia appare incomprensibile e offensiva agli occhi del capo del governo. Nella sua lettura, le scelte e i comportamenti del ministro dell’Interno “rivelano scarsa sensibilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale”, in modo preoccupante per la tenuta stessa dell’architettura democratica del Paese. Un passaggio del discorso di Conte è particolarmente rilevante: “La cultura delle regole, il rispetto delle istituzioni non si improvvisano ma sono qualità fondamentali per aspirare al ruolo di Ministro dell'Interno, che deve ricercare soluzioni credibili senza sollecitare le reazioni dei cittadini”.
Qui arriviamo al nocciolo del discorso del capo del Governo al Senato. Conte ha infatti duramente stigmatizzato l’impalcatura ideologica che sorregge la “richiesta di pieni poteri” e l’appello alle piazze fatto in queste ore, rivendicando il ruolo di argine che hanno avuto lui e la sua maggioranza alle “ambizioni” di Salvini. Proprio questi limiti avrebbero convinto il leader leghista a staccare la spina al governo, dopo aver passato settimane “alla ricerca di un pretesto che potesse giustificare la crisi e il ritorno alle urne”. Un attacco su tutti i fronti, completato con un passaggio sferzante sull’uso politico dei simboli religiosi, altra abitudine censurabile del titolare del Viminale.
Una impostazione persino più dura del previsto, considerando che in sostanza Conte ha dato dell’autoritario, dell’inaffidabile, dell’opportunista, del fannullone, dello speculatore, dell’usurpatore di simboli religiosi, dell'omertoso su Moscopoli, dell’irrispettoso, del traditore e del pericoloso a quello che fino a poche ore prima era il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno del suo governo. Ovvio, la presentazione della mozione di sfiducia ha cambiato tutto, ma Conte non può cancellare con un tratto di penna e con qualche bella parola 14 mesi di condivisione di un percorso e soprattutto di una ideologia: quella del governo del buonsenso, che non ha bisogno di sovrastrutture ideologiche e che non ha paura di muoversi come un elefante in una cristalleria anche per quel che concerne le prassi istituzionali. È l'ideologia di questo governo che ne ha determinato la fine: il predominio della comunicazione, che ingloba la politica e a essa si sostituisce, la logica da campagna elettorale perenne, il rifiuto della complessità, la demonizzazione dell'avversario politico del momento, il vittimismo deresponsabilizzante che spinge sempre a cercare "nell'altro" la ragione dei fallimenti.
Come in occasione della lettera per chiedere lo sbarco dei minori dalla Open Arms, tocca ribadirlo: tutti i provvedimenti di Salvini da ministro dell’Interno portano la firma anche di Giuseppe Conte. Il Presidente del Consiglio ne ha avallato le scelte in tema di migranti, di ordine pubblico, di politiche securitarie. Il Presidente del Consiglio si è limitato a scrollare le spalle quando Salvini minava il rispetto dei ruoli girovagando per le piazze italiane con la maglietta delle polizia, convincendo addirittura il ministro della Giustizia 5, il 5 Stelle Bonafede, a emularlo con la giacca della polizia penitenziaria per “assicurare alla giustizia” un cittadino italiano. Il Presidente del Consiglio ha rivendicato la scelta di aver lasciato per giorni e giorni decine di migranti a bordo della nave militare Diciotti, salvando poi dal processo il ministro dell’Interno. Il Presidente del Consiglio non ha mai parlato di pericolo per la democrazia di fronte a un pacchetto di provvedimenti che criminalizza la solidarietà e limita la possibilità di esprimere il dissenso pubblicamente.
Si è svegliato ora, dopo una mozione di sfiducia individuale. Con la Lega al 35 e con un paese avvelenato da odio e contrapposizioni tra fazioni.