Da circa tre settimane è vigente il cosiddetto Decreto Sicurezza bis: il provvedimento, recante "Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica", porta la firma dei ministri Salvini, Moavero Milanesi, Bonafede, Trenta, Tria e Toninelli. Il ministro degli interni, in conferenza stampa, ha dichiarato di non aver dubbi sulla costituzionalità del decreto: eppure di criticità, sul rispetto della Carta e non solo, ce ne sono diverse.
Innanzitutto, il Decreto sicurezza bis presenta un vizio sdoganato anche dai governi precedenti ma, non per questo, legittimo. Il potere di legiferare spetta infatti di norma al Parlamento, ed è la Costituzione stessa a specificare come il potere del Governo in questo campo sia limitato ed eccezionale: l’esecutivo si occupa delle leggi o seguendo le indicazioni delle Camere (con i decreti legislativi, che devono rispettare i criteri direttivi contenuti nella delega parlamentare, secondo l’art. 76) o "in casi straordinari di necessità e d’urgenza", con i decreti legge, che hanno forza di legge provvisoria finché non vengono convertiti dal Parlamento entro sessanta giorni.
Il decreto sicurezza bis provvede a un caso straordinario di necessità e urgenza? Le premesse all’emanazione del decreto citano la necessità e l’urgenza di garantire più efficaci livelli di tutela della sicurezza pubblica e di rafforzare il coordinamento investigativo in materia di reati connessi all’immigrazione clandestina, eppure i dati del Viminale evidenziano un calo degli sbarchi ed è lo stesso Salvini, alla conferenza stampa di presentazione del decreto, a vantarsi della riduzione degli arrivi: così, nel proclamare questi risultati, si smentiscono urgenza e necessità di prevedere nuovi strumenti, che dovrebbero eventualmente essere discussi secondo il normale iter legislativo.
A mettere in discussione la legittimità nella scelta dello strumento del decreto, inoltre, c’è la previsione di disposizioni non omogenee tra loro: in soli diciotto articoli, il decreto sicurezza bis si occupa di passaggio di navi, immigrazione, modifiche del codice penale e di procedura penale, esecuzione di sentenze penali, coordinamento investigativo estero, Universiadi, rimpatrio, violenza sportiva. Il contenuto di un decreto legge, che deve legarsi a casi straordinari e dovrebbe quindi essere un’eccezione, "deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo", come ordinato dall’art. 15, comma 3, della legge 400/1988. Sulla base di questa disposizione, che si ritiene collegata all’articolo 77 della Costituzione, la Consulta è intervenuta più volte: con le sentenze 171 del 2007, 128 del 2008 e 22 del 2012, ad esempio, la Corte Costituzionale ha censurato decreti legge, o loro conversioni, dichiarati illegittimi proprio per via della loro disomogeneità. Che cosa c’entrino gli stanziamenti per le Universiadi con nuovi oneri per gli albergatori e che legame ci sia tra direttive sull’ingresso nelle acque territoriali e inasprimento delle pene per reati commessi nel corso delle manifestazioni sono questioni che potrebbero portare alla dichiarazione di incostituzionalità del decreto, al di là della sicurezza ostentata da Salvini in conferenza stampa.
Il decreto sicurezza mina il diritto di protestare dei cittadini
Uno dei temi che occupa più spazio nel decreto sicurezza bis è proprio l’inasprimento delle pene per reati commessi nel corso di manifestazioni. Nel presentare il decreto, il ministro degli Interni, cui si è accodato il presidente del Consiglio, ha descritto questa sostanziale modifica del codice penale come rivolta a coloro che "aggrediscono poliziotti, carabinieri, uomini e donne della forza pubblica in servizio durante le manifestazioni muniti di caschi, razzi, fuochi artificiali, mazze o bastoni", quindi – ha aggiunto Salvini- "evidentemente non è la protesta pacifica dello studente o dell’operaio". Si tratta, tuttavia, di una semplificazione fallace, ben diversa dall’effettivo contenuto del decreto.
Il provvedimento governativo, infatti, non si limita a inasprire le sanzioni previste dall’articolo 5 della legge 152/1975, con l’aggiunta dell’art. 5-bis, per punire l’utilizzo illegittimo di questi oggetti con la reclusione da uno a quattro anni, ma procede a una più generale riforma del codice penale. In particolare, il decreto prevede una circostanza aggravante per diversi reati, ossia interruzione di un ufficio o servizio pubblico o servizio di pubblica necessità (art. 340 c.p., con il massimo della pena raddoppiato), devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.), danneggiamento (635 c.p.), oltre a un’aggravante generale aggiunta all’art. 339 c.p., che si riferisce ai reati di violenza e minaccia o di resistenza a pubblico ufficiale: in questo modo, si ha un aumento della pena semplicemente per il fatto che il reato viene commesso durante una manifestazione in luogo pubblico o aperto al pubblico. L’agire durante una manifestazione è paragonato, in termini di gravità, all’utilizzo di armi o al rendersi irriconoscibili. Già questo paragone pone questioni logiche importanti, che nell’ambito del diritto penale possono anche sfociare in dichiarazioni di incostituzionalità: per fare un esempio, con il nuovo decreto, minacciare un poliziotto in pubblico, durante una manifestazione, a volto scoperto (quindi con la possibilità di essere identificati, denunciati e messi in condizioni di non nuocere e di non mettere in atto la minaccia) è punito più severamente che minacciare un poliziotto a casa propria o a casa dell’agente stesso.
Non è l’unica contraddizione di queste novità penali. La nuova aggravante prevista per i reati legati all’ordine pubblico sembra infatti l’opposto di una circostanza attenuante comune, quella prevista dall’articolo 62, punto 3, del codice penale, che riduce la pena qualora il reato sia commesso “per suggestione di una folla in tumulto”. Quindi, da un lato, l’ordinamento ritiene meno grave un reato commesso durante un assembramento, perché le capacità di giudizio (e quindi il dolo) sono spesso offuscate in un’azione collettiva, mentre dall’altro le pene vengono inasprite per la partecipazione a manifestazione in luogo pubblico o aperto al pubblico. Qual è la logica in questa contraddizione? E che ne è del principio di ragionevolezza su cui dovrebbe reggersi il catalogo delle sanzioni nel diritto penale?
Il principio di ragionevolezza, peraltro, si ripercuote anche sulla proporzionalità tra reato e pena: all’aumentare della gravità dovrebbe corrispondere una pena più severa. È davvero così? Come già per le modifiche dei reati di blocco stradale e di invasione di terreni, operate dal primo decreto Salvini, anche queste nuove sanzioni appaiono superiori a quelle previste per reati che dovrebbero destare maggior allarme sociale. Per fare qualche esempio, un gruppo di operai che oggi, per manifestare, fermasse la circolazione stradale, rischierebbe da uno a sei anni per blocco stradale, mentre se per negligenza uccidesse qualcuno rischierebbe di essere condannato alla reclusione da sei mesi a cinque anni: davvero il traffico vale più della vita? Devastazione e saccheggio, reato che già desta qualche perplessità vista la vaghezza nella descrizione dell’illecito e l’asprezza della pena, è ulteriormente aggravato se commesso durante una manifestazione, potendo portare a condanne da un minimo di 10 a un massimo di 20 anni: per capirci, affiliarsi a una associazione a delinquere di stampo mafioso prevede una pena più lieve. O, ancora, lo studente che, durante una manifestazione, si opponga al fermo o comunque venga incriminato per resistenza a pubblico ufficiale, si vedrebbe ulteriormente aumentata la pena, potendo raggiungere anche una condanna a più di sei anni e mezzo di prigione, quando, se invece avesse picchiato qualcuno provocandogli lesioni personali, avrebbe rischiato al massimo tre anni di carcere.
Insomma, anche se la cronaca si concentra sulle norme relative all’immigrazione contenute nel decreto sicurezza bis, sono queste previsioni penali il cuore del provvedimento governativo: con la scusa della chiusura dei porti, il governo pone ancora in discussione il diritto dei cittadini di protestare, non tanto inasprendo le pene per i reati, quanto prevedendo che la stessa circostanza di una manifestazione pubblica diventi automaticamente aggravante di un reato.