Con i dazi di Trump a rischio 68mila posti di lavoro in Italia: quali settori avranno più disoccupati

I dazi di Trump possono causare un calo del Pil italiano di circa lo 0,3%. E per di più rischiano di far perdere 68mila posti di lavoro. Sono i calcoli effettuati dall'Ufficio parlamentare di bilancio, che nella sua audizione in Parlamento sul nuovo Documento di finanza pubblica ha fatto una stima precisa dei possibili effetti delle tariffe imposte dagli Stati Uniti. Naturalmente il calcolo deve fare alcune approssimazioni, e non si sa se i dazi cambieranno nuovamente nelle prossime settimane. Al momento i settori più colpiti sarebbero quello farmaceutico, quello dei mezzi di trasporto, delle attività estrattive, dei prodotti chimici e della fabbricazione di macchinari. Ma saranno "quasi tutti i settori" a subire le conseguenze.
Nel corso delle audizioni – che hanno coinvolto anche Istat, Banca d'Italia e Corte dei Conti – tutti hanno sottolineato che nel Dfp, rispetto ai Def degli anni scorsi, ci sono molte meno informazioni. Questo, come ha detto l'Ufficio parlamentare di bilancio, rende più difficile per "il Parlamento e l'opinione pubblica" valutare "pienamente gli sviluppi previsti". Poi sono arrivati i dati più critici per quanto riguarda la pressione fiscale in aumento, il potere d'acquisto crollato negli ultimi anni e soprattutto i ritardi del Pnrr, che a detta di tutte le istituzioni contabili del Paese è lo strumento più importante per far crescere l'economia italiana nei prossimi anni.
L'effetto dei dazi di Trump sull'Italia: calo del Pil e disoccupazione
Nelle audizioni più volte è emerso che i dazi imposti dagli Stati Uniti hanno aumentato moltissimo l'incertezza, a livello internazionale. Per questo, fare previsioni nel lungo periodo al momento è complicato.
Come detto, secondo l'Upb a essere colpiti saranno "quasi tutti i settori", con un calo stimato del Pil dello 0,3% nel nostro Paese. I danni più grossi saranno per "i settori farmaceutico, attività estrattive, automotive, prodotti chimici, attività metallurgiche e fabbricazione di macchinari". Ma sentiranno il peso delle tariffe anche le imprese di servizi come quelle "della pubblicità, della progettazione immobiliare e della gestione del personale".
Complessivamente, si parlerebbe di "circa 68mila occupati totali in meno". Un'ampia tabella, a pagina 106 del testo dell'audizione, mostra l'impatto calcolato in ogni singolo settore economico. Il danno più grave a livello di occupazione sarebbe nella fabbricazione di macchinari e apparecchiature: quasi 5.200 lavoratori in meno. Quasi 5mila in meno anche nella fabbricazione di prodotti in metallo e nell'industria tessile e dell'abbigliamento. Insomma, a subire il colpo più duro sarebbe l'industria, già in crisi da oltre due anni.
Circa 3.500 posti in meno nella produzione di vegetali e animali, nel commercio all'ingrosso, nei servizi di supporto alle imprese. Quasi 3mila nelle industrie alimentari, nell'automotive, nelle attività legali e di contabilità. Peraltro ci sono ambiti in cui il danno economico sarà anche più pesante, pur con un numero di disoccupati più basso. Da questo punto di vista, il danno peggiore è alle attività estrattive.
Bisogna ricordare che si tratta di stime indicative. Innanzitutto perché tengono conto del livello attuale dei dazi, che potrebbe cambiare. In più, non possono prevedere quale sarà la reazione dell'Europa, che avrà sicuramente un peso. E infine, anche con l'attuazione dei dazi non è detto che ciascun settore si comporti esattamente come previsto, dato che singole aziende possono decidere di muoversi in modo diverso per non ridurre le proprie esportazioni.
Bankitalia critica il piano di riarmo Ue: "Inefficiente"
Sempre in tema di incertezza internazionale, molte audizioni hanno affermato che il piano di riarmo lanciato dall'Ue potrebbe avere effetti positivi o negativi, a seconda di come verrà usato. L'Upb ha detto di considerarlo un elemento potenzialmente utile alla crescita del Pil (fino a 2-3 decimi in più), che però alzerebbe il debito pubblico. Bankitalia ha sottolineato che "uno sforzo di riarmo affidato ai singoli Paesi senza coordinamento potrebbe comportare in ogni caso una spesa inefficiente (non potendo sfruttare le possibili economie di scala) e inefficace (per il rischio sia di duplicazioni sia di non colmare le attuali carenze)".
Anche perché il piano europeo permetterà di spendere soprattutto ai Paesi "con minori vincoli di bilancio, quali ad esempio la Germania", mentre quelli con un alto debito pubblico potranno fare poco. Invece, servirebbe "un programma coordinato finanziato con risorse comuni".
Le parole della Banca d'Italia sono state sottolineate da Arturo Scotto, capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera: "La Banca d’Italia certifica un rischio che abbiamo denunciato da subito. Noi aggiungiamo anche una valutazione più specificatamente politica: il riarmo dei singoli 27 Paesi rallenta, se non addirittura contrasta, il processo di creazione di una difesa comune europea, che è invece la strada maestra in cui crediamo e che ci impegniamo a sostenere e percorrere in Italia e in Europa".
L'allarme sui ritardi del Pnrr
Allargando il discorso al Dfp, le istituzioni ascoltate in Parlamento hanno concordato che per il futuro dell'economia italiana – anche di fronte all'incertezza causata dai dazi – sarà fondamentale portare a termine le opere del Pnrr. Per ora l'Upb ha registrato che ci sono "progressi significativi ma anche ritardi che potrebbero comprometterne la piena realizzazione nei tempi dovuti". Su molti progetti (per oltre 18 miliardi di euro) mancano informazioni aggiornate sui portali pubblici, e finora l'Italia ha usato solo un terzo dei soldi del Pnrr: nei prossimi due anni bisognerà spendere oltre 120 miliardi di euro.
"Secondo i dati disponibili, si stanno accumulando ritardi, specie nell’esecuzione delle opere pubbliche, con il rischio che alcuni traguardi e obiettivi non vengano raggiunti entro la scadenza del Piano (agosto 2026)", ha sottolineato Bankitalia. Tuttavia, "membri del governo hanno fatto riferimento a una nuova richiesta di revisione del Piano, attesa per le prossime settimane".
Proprio su questo punto ha insistito la Corte dei Conti. Ora che c'è la "necessità di procedere ad una accelerazione della spesa per gli interventi", non bisogna comunque "abbandonare (o ridurre) quello che era l'obiettivo principale dello stesso Piano: contribuire alla modernizzazione del Paese rafforzandolo rispetto alle crisi cui è stato finora esposto".
Dunque nonostante la fretta dovuta ai ritardi, che porterà il governo a cercare di modificare il Piano per renderlo meno ambizioso e più fattibile, bisogna comunque dare la priorità agli "interventi per la sanità", ma anche allo sviluppo "della rete dei trasporti, della digitalizzazione e interconnessione, dell'ammodernamento della Pa e, non ultimo, per rafforzare le capacità di ricerca e innovazione del nostro tessuto economico".
Sceso il potere d'acquisto delle famiglie, salita la pressione fiscale
L'Istat ha sottolineato che l'economia italiana "tutto sommato continua a segnare segnali positivi", anche se la crescita è debole. L'Istituto ha comunque certificato che negli ultimi tre mesi del 2024, quando il Pil italiano è cresciuto dello 0,1%, il potere d'acquisto delle famiglie è sceso dello 0,6%. Nei tre mesi da dicembre 2024 a febbraio 2025, i consumatori hanno speso di più (+0,1% del valore) per comprare meno prodotti (-0,3% dei beni).
Va detto che, complessivamente, nel 2024 gli stipendi sono cresciuti più dell'inflazione, portando a un "parziale recupero del potere d’acquisto". Ma questo non basta a compensare il fatto che nel periodo 2021-2024 i prezzi sono aumentati del 19,7% e gli stipendi solo del 9,3%. Questo ha portato il Movimento 5 stelle ad attaccare: "L"Istat certifica un crollo del 10% del potere d'acquisto degli italiani. Carrello tricolore non pervenuto; vantaggi dal taglio del cuneo non pervenuti; taglio dell'Irpef sul ceto medio non pervenuta, anche perché lo stesso Istat ha ricordato l'aumento al 42,6% della pressione fiscale nel 2024″.
La Banca d'Italia ha evidenziato anche che nell'ultimo anno c'è stato un "significativo aumento della pressione fiscale", compensato solo in parte dal fatto che le entrate sono diminuite (in buona parte perché sono arrivati meno soldi per il Pnrr). Nel 2024 la pressione è arrivata al 42,6%, dal 41,4% dell'anno precedente.
Secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio, in futuro non scenderà: "È stimata rimanere su tale livello in media nel triennio 2025-27". Sul punto, la premier Meloni aveva provato a sostenere che l'aumento della pressione fiscale fosse dovuto solo alla crescita dell'occupazione, ma le cose non stanno così.
Quanto crescerà il Pil dell'Italia
L'Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha confermato ciò che aveva già scritto pochi giorni dopo l'approvazione del Dfp: le stime del governo sulla crescita del Pil sono giuste, a grandi linee, ma c'è il rischio che le cose vadano peggio. "L’inasprimento della guerra commerciale e altre tensioni geopolitiche pesano sull’economia globale", ha detto la presidente Lilia Cavallari. Le previsioni dell'Ufficio sono "più caute" per gli anni dal 2026 al 2028, con qualche decimo di crescita del Pil in meno.
Bankitalia ha concordato sostanzialmente con le previsioni del governo sul Pil, decisamente più pessimistiche rispetto a quelle fatte sempre dal governo sei mesi fa. In più, ha sottolineato che se c'è stato un miglioramento nei conti pubblici è soprattutto grazie al "drastico ridimensionamento delle spese relative al Superbonus", come ha confermato anche l'Upb.