La proroga delle misure di contenimento della diffusione del Covid-19 non ci ha colto di sorpresa, visto che si è trattato di una decisione attesa e già anticipata più volte nel corso delle ultime settimane. Il governo ritiene che le misure adottate a partire dai primi giorni di marzo abbiano funzionato e, con il conforto dei dati sui nuovi contagi e sulle terapie intensive, sta cominciando a ragionare su un graduale ritorno alla normalità. Il punto è che, malgrado il momento peggiore sembri essere alle spalle, non ci sono le condizioni di sicurezza per un drastico allentamento delle misure di contenimento e si ritiene necessario prorogare in particolare le norme relative al distanziamento sociale. L'esecutivo ha deciso da tempo di affidarsi in modo quasi vincolante ai pareri del Comitato tecnico scientifico, scelta rivendicata più volte dal Presidente del Consiglio e dal ministro della Salute; gli esperti da giorni ribadiscono come sia necessario continuare sulla stessa strada, per non vanificare gli sforzi fatti finora e per impedire la nascita di nuovi focolai in zone colpite solo in modo lieve dall'epidemia. Inoltre, alle spinte di parte del mondo produttivo e di alcuni esponenti politici fanno da contraltare gli allarmi dei Presidenti di Regione, che sottolineano come sia già aumentata la pressione sul sistema sanitario anche nelle aree meno esposte e non appare opportuno recedere dalla strada del rigore. Dunque, si va avanti così fino al 3 maggio.
Nelle prossime settimane la vita degli italiani continuerà pressappoco allo stesso modo: uscite limitate ai casi di stretta necessità, controlli serrati delle forze dell'ordine, lezioni a distanza per gli studenti e smart working per le aziende che sono state in grado di implementarlo. Con qualche cambiamento sostanziale e le prime indicazioni di ciò che verrà dopo. Crescerà il numero di Regioni italiane nelle quali sarà obbligatorio l'utilizzo delle mascherine per uscire di casa, nonostante sul tema l'OMS resti sempre della stessa posizione e nonostante l'imbarazzante assenza di indicazioni univoche da parte delle autorità sanitarie ai vari livelli. Per come stanno andando le cose, tutto lascia supporre che l'utilizzo delle mascherine possa diventare una delle caratteristiche della tanto attesa fase due, quella che dovrebbe servire essenzialmente a riportare la gran parte degli italiani nei luoghi di lavoro e a far cadere alcune restrizioni considerate eccessive in una fase di decrescita dei contagi.
Nel frattempo, in molte Regioni si comincerà a fare sul serio per quel che concerne il tracciamento dell'epidemia, anche utilizzando i test sierologici, fondamentali per capire la percentuale di italiani ormai immunizzata. Nell'arco di qualche giorno dovrebbe arrivare (finalmente) il parere delle autorità sanitarie sull'affidabilità dei test (o la validazione solo di alcuni di essi), passaggio essenziale perché le Regioni partano con le mappature e le indagini epidemiologiche su vasta scala, precondizioni per l'avvio della fase due, che partirà solo quando si sarà in grado di "convivere con il virus in attesa del vaccino".
Riapriranno alcune attività (cartolibrerie, librerie, negozi per la prima infanzia) e un numero già importante di aziende (in particolare la componentistica per computer, macchinari industriali e agricoli), dunque aumenteranno le persone costrette a recarsi sul luogo di lavoro. Le aziende dovranno mettere in campo pratiche virtuose per il rispetto della distanza di sicurezza soprattutto negli spazi comuni, cambiando abitudini consolidati per le pause, le mense, gli orari di apertura e chiusura.
Le prossime settimane saranno il banco di prova decisivo anche per la tenuta del tessuto sociale del Paese e per valutare l'efficacia dei provvedimenti messi in campo dal governo per sostenere le famiglie provate dalla crisi. Le prime azioni (bonus per autonomi e partite IVA, estensione della cassa integrazione, aiuti alimentari) sono solo dei palliativi e non possono bastare in un arco di tempo così ampio. L'esecutivo è chiamato a dare risposte concrete ai bisogni crescenti degli italiani, a immaginare soluzioni più incisive per le decine di migliaia di disoccupati e per le attività commerciali che arriveranno alle soglie dei due mesi di serrata. Non è escluso che si apra un dibattito sul reddito di quarantena, che dovrebbe diventare reddito di base vista la portata della crisi, in modo da garantire la sussistenza delle fasce più esposte della popolazione. Un dibattito che si spera non resti schiacciato da quella che il governo considera la madre di tutte le battaglie, la lotta sugli Eurobond o in generale la trattativa per ottenere un concreto sostegno dalle istituzioni europee. Un tema che monopolizzerà le giornate degli italiani, almeno nella copertura mediatica, e che si trascinerà dietro anche la questione del potenziamento delle strutture sanitarie e della capacità di risposta all'epidemia dell'intero sistema. È questo un fronte sempre caldissimo, con le Regioni chiamate a correggere gli errori e le storture di queste settimane e l'esecutivo che deve farsi carico con maggior decisione del coordinamento delle attrezzature e dei dispositivi, nonché dell'adesione di protocolli comuni. Soprattutto perché si tratta di un ambito che si apre alla manipolazione e al profitto, visto che la paura del virus potrebbe spingere ad allentare i controlli, a considerare la trasparenza come un orpello inutile, l'affidabilità e il rigore come ostacoli burocratici.
Saranno settimane durissime, in cui si moltiplicheranno ossessivamente gli appelli a restare a casa e la retorica del piccolo sforzo individuale che può determinare grandi risultati. Il rischio, una volta di più, è quello di far passare in secondo piano la gravità della situazione, il peso delle migliaia di morti e delle decine di migliaia di malati, oltre che della limitazione della libertà di milioni di italiani.
Non è cosa da poco e non bisogna prendere alla leggera una decisione di questo tipo. Chiedere agli italiani di restare altre tre settimane confinati in casa non è cosa da poco e non ha senso continuare a ripetere banalità del tipo "ai nostri nonni chiedevano di andare in guerra a noi si chiede di stare sul divano". È svilente e mortificante, perché banalizza questioni essenziali. La privazione della libertà personale non è mai cosa da poco, così come non lo sono le restrizioni che verranno imposte nei luoghi della nostra quotidianità. Di fronte alla minaccia del coronavirus si è chiesto alla persone di rinunciare a vivere per continuare a vivere, facendo leva sulla madre di tutte le paure, quella di morire. Una paura resa concreta e palpabile dai numeri e dalle immagini che quotidianamente arrivano dalle zone più esposte, con cui stiamo convivendo da settimane e che abbiamo provato invano a esorcizzare in ogni modo: dapprima con lo spirito di solidarietà e di appartenenza, poi con le notizie sulla "condivisione del problema", e ancora affidandoci agli esperti, ai leader forti (o presunti tali), traendo sollievo da ogni sperimentazione che sembrava promettente e sperando sempre nell'arrivo del game changer, che fosse il vaccino o il farmaco miracoloso. Sullo sfondo, lo spettro di una crisi economica devastante, con milioni di esistenze senza un piano B, senza un salvagente, esposte più di altre a un futuro tanto drammatico quanto ineluttabile. Era necessario restare a casa per fermare il contagio: gli italiani lo hanno fatto, a costo di enormi sacrifici che non sarebbe giusto banalizzare.
Barack Obama ha recentemente sostenuto che l'errore più grande che si possa fare in situazioni del genere è quello di "dare informazioni sbagliate, soprattutto quando si devono chiedere sacrifici". Aggiungere incertezza o confusione è un errore imperdonabile, cui però le nostre istituzioni non si sono sottratte, anzi. Mentre si chiede ai cittadini di resistere altre due settimane, infatti, non si danno informazioni chiare su cosa succederà, sulla strategia in campo per cambiare il corso degli eventi. Non possono bastare i discorsi motivazionali, serve mettere sul tavolo ciò che si ha: qual è il piano per restituire agli italiani la loro libertà di movimento, quali sono le tempistiche di massima con le quali si intendono riaprire le scuole e altre attività, se c'è un'idea di nuova normalità in cui far coesistere distanziamento sociale e ripresa della vita, in che tempi si immagina di poter garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro, in che modo si sta lavorando per garantire anche quei servizi non essenziali ma importanti per la vita delle persone. Neanche stasera il Presidente del Consiglio Conte ha detto una parola su tutto ciò, rimandando sempre a responsabilità e decisioni altrui (il comitato tecnico scientifico). E insistendo sulla linea del "tutto dipende da noi", che serve certo a responsabilizzare i cittadini, ma rischia di essere consolatoria e autoassolutoria. Tocca alla politica prendere le decisioni, trovare soluzioni e mettere in sicurezza i cittadini e l'economia del paese. Gli italiani hanno dimostrato di sapere e volere rispettare le indicazioni. Ora meritano risposte adeguate.