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Autonomia differenziata delle Regioni

Come l’autonomia differenziata rischia di peggiorare l’accesso all’aborto

Una delle possibili conseguenze dell’autonomia differenziata è di peggiorare ulteriormente la qualità dell’accesso all’aborto, una prestazione sanitaria già segnata da profonda discontinuità nel nostro Paese.
A cura di Jennifer Guerra
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Con il via libera definitivo del Parlamento della contestata legge sull’autonomia differenziata, voluta dal ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli della Lega, cresce la preoccupazione per l’inasprimento delle disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud, specie per quanto riguarda la sanità. Una delle possibili conseguenze dell’autonomia differenziata è di peggiorare ulteriormente la qualità dell’accesso all’aborto, una prestazione sanitaria già segnata da profonda discontinuità nel nostro Paese.

Uno dei prerequisiti per l’autonomia differenziata è l’individuazione dei LEP, i livelli essenziali di prestazione, modellati sull’esperienza dei LEA, i livelli essenziali di assistenza del sistema sanitario. I LEA sono stati introdotti nel 2001 per monitorare gli standard sanitari di ciascuna Regione, attraverso un centinaio di voci che vengono periodicamente aggiornate e controllate da un Comitato. L’idea è che ogni regione, che amministra la propria sanità territoriale, debba garantire i LEA allo stesso modo. Nel 2017 l’aborto chirurgico è stato inserito nei LEA, senza però che questo risolvesse il problema del divario tra Nord e Sud.

Per accedere all'aborto le donne nel Mezzogiorno sono costrette a spostarsi

Dalla relazione annuale al Parlamento sull’applicazione della Legge 194 è facile capire la dimensione del problema: nel 2021, sul totale delle donne che hanno interrotto la gravidanza, al Nord solo il 9,7% è dovuta andare fuori provincia di residenza, mentre al Sud il 21,7% e nelle Isole il 17,2%. In Basilicata, il 20% è dovuta andare addirittura fuori regione. Gli spostamenti per ottenere un’Ivg sono legati a doppio filo dalla presenza di medici obiettori: in Meridione il 78,5% dei ginecologi è obiettore, con il picco dell’84% in Abruzzo e dell’85% in Sicilia, contro il 54,7% del Nord.

Le ragioni di un così alto tasso di obiezione non sono soltanto morali, ma sono legate anche alla qualità del lavoro e della formazione. Se in una struttura ci sono già molti obiettori, a un ginecologo giovane non conviene dichiararsi non obiettore, a meno che non voglia ritrovarsi a fare solo interruzioni di gravidanza senza una retribuzione adeguata. Gli specializzandi, di conseguenza, non vengono formati adeguatamente e non sono incoraggiati a occuparsene. Inoltre, se il direttore sanitario o il primario di ginecologia sono obiettori hanno tutta la facoltà di applicare la cosiddetta “obiezione di struttura”, ovvero di non praticare nessuna Ivg nell’ospedale.

Cosa dice la 194 e cosa dovrebbero fare le Regioni

Su questo punto, la legge 194/78 è fumosa. L’articolo 9 stabilisce la legittimità dell’obiezione di coscienza e si limita a dire che “gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure previste” e che “la regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale”.

Con l’aggiornamento delle linee di indirizzo sull’aborto farmacologico nel 2021, spinto anche dalle difficoltà che si erano create con l’ospedalizzazione durante la pandemia, si era aperto uno spiraglio di miglioramento. L’aborto farmacologico infatti non necessita di passaggi in ospedale e può essere somministrato in consultorio, ma poche regioni hanno accolto le indicazioni del Ministero, che non erano vincolanti. Inoltre, l’aborto farmacologico non rientra nei LEA e quindi il monitoraggio della sua accessibilità non viene garantito.

Con l'Autonomia le differenze regionali aumenteranno

Con l’autonomia differenziata, questa situazione già complessa rischia di collassare. La “mobilità del personale” prevista dall’articolo 9 della Legge 194 dipende anche dall’offerta delle aziende ospedaliere: le regioni del Nord potranno offrire stipendi più alti e condizioni di lavoro più attrattive, lasciando il Sud scoperto e con poco personale.

Tra il 2010 e il 2019 nessuna regione del Sud è arrivata fra le prime dieci nell’adempimento dei LEA, portando a un aumento significativo del "turismo sanitario" verso il Nord. Il problema dell’aborto è che i tempi per praticarlo legalmente sono molto stretti e non si può pensare di dover attraversare l’Italia per accedere a un servizio considerato “essenziale”. Secondo l’analisi della fondazione Gimbe sull’autonomia differenziata, anche la sanità del Nord verrà penalizzata da questa misura, aumentando il carico di lavoro e le liste di attesa. Sebbene la situazione dell’accesso all’aborto al Sud sia molto grave, non va dimenticato che in alcune regioni del Nord, come la Lombardia e il Veneto, il tasso di obiezione è alto e il servizio non sempre garantito.

Un possibile argine a questo disastro sanitario c’è ed è proprio l’aborto farmacologico, una procedura semplice e sicura, molto meno onerosa per il sistema sanitario rispetto all’aborto chirurgico, che non prevede ospedalizzazione e riduce il rischio di incontrare personale obiettore. Purtroppo, la RU486 continua a incontrare una forte ostilità e le linee di indirizzo del Ministero sono state perlopiù ignorate dalle regioni. Prima che un servizio di salute essenziale venga definitivamente cancellato, c'è ancora la possibilità di salvarlo.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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