Era prevedibile, qualcuno lo aveva previsto, è puntualmente avvenuto. Al termine di una campagna elettorale, che con un eufemismo potremmo definire anomala, alle Europee Giorgia Meloni ha ottenuto un risultato netto, inequivocabile: la luna di miele con gli italiani va avanti, il suo governo continua a essere apprezzato e supportato da una consistente fetta di elettori, le sue scelte sono state giudicate giuste e adeguate al momento, le sue promesse ritenute credibili. Questo è un fatto, e costituisce una legittimazione del suo operato a Chigi, oltre che una spinta ulteriore nel percorso di riforme che ha già impostato.
Meloni ha azzeccato tutte le scelte in campagna elettorale: la personalizzazione della contesa, la polarizzazione su Schlein (di cui ha beneficiato anche la leader del PD), la trasformazione di una contesa europea in una verifica sul governo, la decisione di non competere con Salvini e Vannacci nella ricerca del voto populista, dedicandosi al ceto medio e all'elettorato "di opinione", l'eliminazione dalla sua agenda delle questioni più scottanti e divisive (alzi la mano chi ricorda la sua posizione su Gaza). Una campagna pressoché perfetta, condotta anche grazie all'incredibile e inusitata commistione dei livelli, che le ha permesso di occupare gli spazi mediatici alternativamente come presidente del Consiglio, leader di partito, candidata alle Elezioni e leader del quarto gruppo politico in UE.
Meloni è riuscita a usare con grande intelligenza la leva del governo; o meglio, quella del potere. Ha scelto di non galleggiare, dando la sensazione di essere disposta a prendere decisioni impopolari pur di mantenere una coerenza di fondo. Lo ha fatto sul reddito di cittadinanza e sul superbonus, scelte per nulla scontate e che evidentemente sono state comprese, quando non apprezzate, da larga parte del suo elettorato di riferimento. Ma soprattutto, ha usato il suo enorme potere, mediatico e politico, per imporre i temi dell'agenda su cui avversari e alleati hanno dovuto giocarsi la partita. Per l'opposizione è stato un continuo rincorrere il governo: sulla sanità, sul lavoro, sulle scelte in materia di fisco. Solo che, mentre la presidente del Consiglio annunciava provvedimenti epocali, elargiva promesse e distribuiva piccoli contentini, a loro non restava che aggrapparsi a qualche fact checking o a dichiarazioni d'intenti. Troppo poco per competere, onestamente.
Sul piano comunicativo, la candidata Meloni è stata altrettanto brava. Perché ha capito due cose fondamentali. La prima è che personalizzare il voto era strategia non necessariamente in antitesi rispetto alla necessità di cementare e compattare la propria comunità. Anzi, che la sua figura avrebbe potuto essere il collante fra la sua base storica (militanti, dirigenti ed elettorato di area) e i nuovi elettori, ovvero quei cittadini che avevano scelto Fratelli d’Italia dopo la pandemia e la reggenza Draghi. Immaginando che l’affluenza sarebbe stata bassa, andava trovato il giusto compromesso fra “mobilitare gli uni” e “motivare gli altri”: da lì la scelta di mescolare riferimenti identitari e progetti di ampio respiro (tra cui la pretesa di “cambiare l’Europa”) a una narrazione più spicciola, tutta centrata sul pragmatismo e sul buonsenso. Ha funzionato, anche perché la polarizzazione con Schlein ha aiutato a definire i campi, rendendo più semplice la scelta e più utile la mobilitazione. Per tornare al suo slogan: in pochi hanno votato realmente per "cambiare l'Europa", in tanti hanno votato perché Giorgia rappresenta l'Italia. Insomma, è andato male chi non è riuscito a dare una risposta semplice a una domanda semplice: perché devo votarvi? Per liberare la Salis e rimediare a un'ingiustizia: chiaro e diretto. Per far finire la guerra: fumoso e irrealistico.
In tale contesto, anche i “luoghi” della propaganda elettorale hanno finito per contare molto. Ed è una cosa che più di tutti hanno capito Meloni e Schlein, sia pure con scelte sostanzialmente diverse. La segretaria del Partito democratico ha scelto di fare una lunghissima campagna sul territorio, nei circoli e fra i militanti (dopo aver utilizzato il bilancino nella scelta delle candidature, provando a coprirsi con posizionamenti strategici ma non rinunciando ad accontentare le correnti interne). Una linea del tutto coerente con la sua impostazione iniziale della “ricerca della connessione sentimentale con i militanti”, che ha pagato proprio nella misura in cui è riuscita a mobilitare il suo popolo, quella che una volta veniva chiamata “la base”. Che vale doppio, con un’affluenza così bassa, come abbiamo detto.
Meloni ha invece fatto un ragionamento diverso, adeguato a un partito con una struttura più piccola del PD e ancora in fase di sviluppo territoriale. La presidente del Consiglio, sfruttando appunto la commistione dei livelli (candidata, capo del governo, leader di partito e referente europea di ECR), ha occupato gli spazi mediatici tradizionali con una costanza mai mostrata prima. TeleMeloni è strabordata sulle reti private, ha inglobato praticamente tutte le trasmissioni viste da un’elettorato con età media piuttosto elevata, che tradizionalmente non rinuncia a esercitare il proprio diritto di voto. Stesso canovaccio sui giornali, che hanno garantito una copertura costante alle scelte comunicative strategiche della presidente del Consiglio.
E stavolta, a differenza si quanto accaduto nel recente passato, i media tradizionali sono stati davvero decisivi. Per una serie di ragioni anche molto complesse da spiegare (che essenzialmente rimandano a scelte strategiche di META, all’involuzione di X e alla poca pervasività di TikTok su un certo tipo di pubblico), i social network hanno ormai perso quella centralità nel dibattito politico. La politica trova sempre meno spazio sui social, che anzi hanno algoritmi che limitano la propagazione di messaggi divisivi e controversi. Non è un caso che le forze politiche che soffrano di più siano quelle che storicamente hanno costruito la loro fortuna sulla viralità dei meccanismi social. Così come che siano andati molto male quei candidati o gruppi di candidati che non hanno avuto la possibilità di acquisire visibilità sui media tradizionali o che hanno puntato molto su temi "osteggiati" dagli algoritmi, tra cui la carneficina di Gaza e la guerra in Ucraina. Meloni, peraltro, continua a cavarsela discretamente “anche” sui social, avendo dimestichezza col mezzo e una non comune capacità di banalizzare questioni complesse, grazie a strutture ricorsive e narrazione vittimista.
Infine, un ultimo punto, relativo al rapporto dei leader col potere. Qualcuno spera sempre nell'effetto logoramento, che si declina sostanzialmente in due modalità: o il leader si siede sugli allori, si snatura e comincia ad accontentare tutti pur di non perdere potere e centralità; oppure pecca di hybris, finendo per strafare. In tal senso, alcuni analisti individuano nelle riforme istituzionali e costituzionali (premierato, autonomia e non solo) il momento della verità. La tesi è che la parabola di Meloni possa essere simile a quella di Renzi o Salvini, leader bruciati nel breve volgere di una stagione politica. Un errore, a parere di chi scrive. Renzi e Salvini erano realmente delle anomalie del quadro politico italiano, due alieni sbarcati nei salotti romani, cui erano entrambi estranei. Meloni in quei palazzi è nata e cresciuta politicamente, conosce riti e prassi meglio di altri. È lì per restare ma non si impantanerà. Ha un progetto più ampio, la trasformazione dell'Italia nel laboratorio della destra europea, ed è un'interprete dello spirito del tempo che fa tanto comodo anche agli ambienti di Strasburgo/Bruxelles e di Washington.