Come è arrivata la Sardegna a vietare il 99% del territorio a eolico e solare, e perché ci riguarda
Oltre 800 richieste di allaccio per nuovi impianti eolici e fotovoltaici sparse in tutta l’isola. Un piano di metanizzazione che procede nel silenzio generale. Due centrali a carbone da tempo in procinto di chiudere ma che, alla fine, si salvano sempre. Tre anni di mobilitazione popolare senza precedenti e un’imponente campagna della destra mediatica locale. Alla fine, una proposta di legge che dovrebbe, nelle parole dell’assessore all’industria, «rendere il 99% del territorio sardo indisponibile all’installazione di parchi rinnovabili».
In Sardegna lo scontro su fotovoltaico ed eolico monopolizza il dibattito pubblico – dalle prime pagine dei giornali alle cene tra amici. Un caso di studio anche per chi non vive nell’isola: le scelte della Regione potrebbero essere copiate domani da tutto il resto d’Italia.
Energie rinnovabili: cosa sta succedendo in Sardegna
Da anni ormai nella seconda isola italiana serpeggia la preoccupazione per i piani energetici che la riguardano. Sul sito di Terna, il gestore della rete elettrica nazionale, si segnalano oltre 800 richieste di allaccio nell’isola per nuovi progetti fotovoltaici ed eolici. Se venissero tutte accolte, si arriverebbe a produrre quasi dodici volte il fabbisogno elettrico regionale – al netto dell’elettrificazione. Capire quante di queste diventeranno davvero un impianto non è facile. Secondo la Confederazione Nazionale dell’Artigianato, in Italia circa la metà delle proposte arriva a conclusione, con un iter che richiede in media sette anni. Il governo nazionale, nel suo nuovo piano energia e clima, chiede alla Sardegna di aggiungere 6.2GW entro il 2030. Molto meno dei 54GW che si conterebbero nel caso in cui tutti i progetti elencati da Terna prendessero corpo.
«La nostra prima ragione di contrarietà ha a che fare col paesaggio. La Sardegna non è adatta a ospitare impianti così grandi e così numerosi»spiegava poco più di un mese fa a Fanpage l’attivista Luigi Pisci. «Poi c’è una questione di modello di sviluppo. La Sardegna si riempirà di mega impianti, e l’energia non servirà a noi, ma verrà esportata verso le industrie del Nord Italia. Non ci guadagneremo nemmeno in bolletta: col prezzo unico nazionale pagheremo l’energia come gli altri – anzi, rischiamo di sostenere pure il costo delle rinnovabili».
Le iniziative sull’isola per fermare quella che quasi tutti chiamano «speculazione energetica» sono molte. La più d’impatto è una legge di iniziativa popolare volta a impedire la costruzione di impianti rinnovabili e infrastrutture connesse nella quasi totalità del territorio sardo. Il testo prevede anche uno stop agli impianti fossili – ma con delle deroghe relative all’idrogeno che gli sono valse critiche di parte dell’ecologismo locale. A promuoverla un’articolata coalizione di comitati spontanei, partiti della sinistra indipendentista e, sopratutto, l’Unione Sarda – il principale quotidiano dell’isola capofila di un gruppo mediatico che comprende radio e televisioni. Il gruppo editoriale cagliaritano è storicamente vicino al centrodestra, e da anni conduce un’aggressiva ed efficace campagna contro le rinnovabili e a favore dell’arrivo del metano o di futuristiche soluzioni a base di idrogeno. «Pratobello 24» – così è soprannominata la legge, in onore di una storica lotta antimilitarista sarda – si è rivelata un successo con pochi precedenti. 210.000 firme in una regione da poco più di un milione e mezzo di abitanti, raccolte peraltro in piena estate.
La proposta ha incassato il sostegno del ministro Antonio Tajani, e Forza Italia promette di portarla a breve in consiglio regionale. Ma non è detto che abbia vita lunga nelle aule legislative. Alessandra Todde, la presidente di centrosinistra, ha infatti promesso di prendere in mano la situazione non appena insediata. In maggio ha varato una moratoria di diciotto mesi su eolico e solare a terra, con l’intenzione esplicita di prendere tempo per riscrivere le regole. Lo Stato la ha prontamente impugnata, ma la Regione ha già pronto il passo successivo. Due settimane fa la giunta ha presentato un disegno di legge per mappare le aree idonee, e il risultato ha sbalordito un po’ tutti.
No alle rinnovabili nel 99% dell’isola
Il disegno di legge è stato approvato da presidente e assessori, non ancora dal consiglio regionale. I partiti che sostengono Todde sono però compatti, e non sono attesi stravolgimenti. Ma di cosa si tratta?
Il governo, applicando le direttive europee, chiede a tutte le regioni di suddividere il proprio territorio in tre aree: idonee, ordinarie, non idonee. Le prime sono aree di particolare accelerazioni burocratica, dove installare rinnovabili dovrebbe essere velocissimo. Un modo per accelerare sulla transizione. Le secondo sono zone in cui è possibile installare impianti, ma seguendo il classico (e difficoltoso) iter. Le terze, infine, sono località che per ragioni naturalistiche, paesaggistiche o di altro tipo sono considerate incompatibili con pale e pannelli.
La Sardegna ha fatto ciò che li Stato le chiedeva, ma in modo particolarmente draconiano. Innanzitutto, le nuove regole sono retroattive, applicate anche alle proposte già presentate. La lista delle aree idonee, poi, è piuttosto breve: ci sono ad esempio zone industriali dismesse, ex-cave, prossimità di strade e ferrovie. Le aree non idonee, al contrario, sono riassunte in pagine e pagine di allegato: coste, crinali ritenuti strategici per le attività anti-incendio, prossimità di beni archeologici (si parla dei due chilometri circostanti, ma la Regione promette di salire a sette) e via a seguire con una lista tecnica e lunga. Le aree ordinarie andrebbero ricavate per differenza, così come andrebbe studiata una mappa che traduca visivamente questa legge. Ma l’assessore all’industria Emanuele Cani, del Partito Democratico, si sbilancia già con un conteggio: «Dovremmo avvicinarci al 99% del territorio sardo indisponibile alle fonti rinnovabili» spiega a Fanpage.
Per molti è comunque troppo poco
L’annuncio della giunta ha spiazzato un po’ tutti – e la tecnicità del disegno di legge non aiuta i commenti. Grandi protagonisti delle proteste contro il «colonialismo green» sono stati i comitati organizzati spontaneamente da cittadini in ogni angolo dell’isola. «Ci sono delle criticità» ci dice Marco Pau, portavoce del coordinamento che raggruppa la gran parte dei comitati. «Primo, non è detto che il meccanismo giuridico delle aree idonee sia sufficiente a bloccare i progetti. Secondo, la giunta mette delle regole ma subito prevede le deroghe. I Comuni a certe condizioni possono autorizzare impianti anche al di là dei paletti individuati. Temiamo che i sindaci rimangano alla mercé delle multinazionali e del poco profitto che gli possono offrire. Allo stesso modo siamo critici sui due chilometri di interdizione attorno ai beni archeologici – anche se la Todde ha promesso di aumentarlo a sette -, sull’altezza dei crinali oltre i quali non si può procedere con l’eolico, sull’apertura all’agrivoltaico».
Maurizio Onnis è sindaco di Villanovaforru, il paese di settecento abitanti nel Sud della Sardegna che per primo ha inaugurato una comunità energetica rinnovabile. Ha animato le proteste nella sua zona, e ora esprime un sentimento di prudente apertura. «Da quel che abbiamo avuto modo di vedere, ci sono criticità da correggere ma anche cose buone. È un passo nella giusta direzione. Ma attenzione, ha senso se si fa anche il resto: il piano energetico regionale per capire quanta e quale energia serve all’isola, e l’Agenzia Energetica Sarda promessa. Altrimenti rimane monco». Il riferimento è ad un’altra delle iniziative portata avanti dalla giunta: una società 100% pubblica e regionale che si occupi di energia. Dai palazzi di Cagliari assicurano che arriverà presto, ma non è ancora chiaro quanto peserà nel mix energetico sardo.
Onnis e Pau sono due esponenti della medesima galassia di comitati, e ascoltandoli si può intuire anche la diversità di posizioni che anima questo movimento così composito. «I 6.2GW imposti sono da rivedere al ribasso» dice Pau, esprimendo una posizione maggioritaria tra i manifestanti. «Per me ci si può mettere d’accordo su aree e quantità, fare in modo che si arrivi ai 6.2GW» risponde invece Onnis. «Il punto è la speculazione. Se la Regione venisse da me con un piano energetico ben fatto, con un’agenzia sarda per l’energia che funzioni, con la garanzia che un tot dell'energia prodotta rimanga al territorio, e mi chiede di installare che so, una pala da 150 metri, io a quel punto sono disponibile a discuterne», conclude il sindaco.
In generale, comunque, la Sardegna si è divisa tra chi plaude alla scelta di Todde e chi considera il decreto legge ancora troppo permissivo. Pochi ritengono che, al contrario, queste regole siano un pericolo per lo sviluppo delle rinnovabili. Tra questi pochi, le associazioni ecologiste. In una lettera congiunta Legambiente, WWF, Greenpeace e Kyoto Club scrivono che «non è chiaro come farà la Regione Sardegna a raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione» con le limitazioni proposte, e che «a pagarne le conseguenze saranno soprattutto gli stessi sardi, costretti a sopportare i danni di un’economia fossile». Marta Battaglia, presidente di Legambiente Sardegna, diceva a Fanpage il mese scorso: «noi contestiamo la narrazione che viene fatta. Le richieste di allaccio – quelle famose 800 pratiche – non corrispondono a impianti davvero in realizzazione». Oggi è perplessa di fronte alle scelte della giunta. «Non possiamo certo essere contenti di chi celebra il fatto che quasi tutto il territorio sardo sarà indisponibile per le fonti pulite. Non è solo questione di aree. Ad esempio, nel disegno di legge si impedisce il revamping – cioè, l’ammodernamento degli impianti eolici – se questo implica che le pale diventino più alte o i basamenti più grandi. Un po’ come dire che va bene avere un computer più potente, purché funzioni solo col floppy disk».
«Raggiungeremo gli obiettivi climatici»
Ad essere assolutamente certo che le aree lasciate a disposizione delle rinnovabili siano sufficienti per la transizione ecologica è l’assessore Cani. «La legge è pensata per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione. Tenga conto che anche parlando di un 1%, non è certo una porzione di terra irrilevante» ci dice. «Per noi è necessario raggiungere i 6.2GW previsti, ma non dobbiamo pensarli solo come grandi impianti a terra». Assieme alla quantità di energia da produrre, in cima alle perplessità dei comitati c’è il tema delle deroghe che i Comuni possono concedere. «Abbiamo fatto un’ampia consultazione coi Comuni, e tutti ci hanno detto la stessa cosa: fin’ora non abbiamo contato nulla. Noi gli ridiamo centralità: mai più un impianto senza il consenso della comunità locale. Se un paese ritiene un progetto utile per la propria comunità, è giusto possa attivarsi».
Sull’isola insiste un secondo maxi-progetto energetico, relegati ai margini del dibattito: il metano. L’isola è infatti l’unica regione italiana a non usare massicciamente il gas naturale, ma da tempo si prepara il suo arrivo. Nella versione light, si parla di rigassificatori sulle coste e un gasdotto che attraversa l’isola; in quella hard, addirittura di un tubo sottomarino che colleghi l’Italia ai giacimenti algerini passando dalla Sardegna. Benché esistano differenze sullle modalità, il metano mette tutti d’accordo: governo nazionale, giunta regionale, Confindustria, sindacati, Unione Sarda. «Stiamo immaginando l’uso del gas prevalentemente per l’industria» spiega l’assessore. Il metano, bruciato, produce meno anidride carbonica di petrolio e carbone. Ma rimane un combustibile climalterante, quello da cui l’Italia è maggiormente dipendente, e le perdite degli impianti hanno un effetto ottanta volte peggiore della CO2.
Quanta energia serve alla Sardegna?
Almeno a parole nessuno – non i comitati, non la giunta e nemmeno l’opposizione di centrodestra – è contrario alla transizione tout court. Il punto è il come, giurano tutti. Ma cosa serve per abbandonare i fossili in Sardegna?
La Sardegna è la regione italiana con emissioni pro capite più alte. Il sistema elettrico si regge sugli scarti di raffinazione del petrolio e due centrali a carbone – le uniche in Italia la cui chiusura non è in programma per il prossimo anno. Nonostante la Sardegna esporti il 35% circa della sua corrente elettrica, le rinnovabili sono appena il 25% della produzione. E a questo va aggiunta l’energia di auto, camion, caldaie, industrie: tutto fossile. Secondo uno studio dell’Università di Cagliari e di Fondazione Enel, con 10GW aggiuntivi di rinnovabili si arriverebbe a completare una parte importante della transizione. Unsecondo studio – commissionato dal WWF a Politecnico di Milano e Università di Padova – stima che per la decarbonizzazione completa servano 17GW. Nella stessa ricerca si evidenzia come, investendo adeguatamente su eolico e solare, si possa evitare l’uso del metano. In tutti i casi, si parla di ben più dei 6.2GW previsti dal governo.
«Secondo i nostri calcoli, con un pezzetto di territorio sardo che va dal 0.5% all’1% del totale possiamo arrivare all’80%, anche 85% di decarbonizzazione. Sono percentuali compatibili coi piani della Regione», ci dice Fabrizio Pilo, pro-rettore dell’università di Cagliari e autore del primo dei due studi sopra citati. Ma quell’1% va bene qualunque sia e dovunque sia? «Dipende. Il solare si può mettere ovunque. Per l’eolico, chiaramente, serve selezionare posti in cui c’è vento».
In attesa di avere in mano la mappa delle aree effettivamente utili alla transizione, a intestarsi la vittoria è Confindustria Sardegna. Sulle pagine del Sole 24 Ore è il presidente degli imprenditori sardi a celebrare il disegno di legge di Todde, legandolo allo sviluppo del gas: «Il metano deve essere una delle componenti del mix». Non è una presa di posizione inattesa: la possibilità di cancellare nuovi piani sull’energia sporca grazie a sole e vento, osteggiata da Confindustria ma in campo fino a qualche anno fa, sembra definitivamente tramontata. Il futuro delle rinnovabili in Sardegna è ancora incerto, ma quello del fossile è sicuramente roseo.