Su ciò che è successo la notte di Capodanno (e sul modo in cui i fatti sono stati raccontati dai media soprattutto nelle prime ore) abbiamo provato a fare un minimo di chiarezza qui. Un’operazione preliminare che potrebbe essere particolarmente necessaria considerando che si tratta di una vicenda che potrebbe avere enormi ripercussioni a breve e medio termine e coinvolgere l’intero sistema dell’accoglienza a livello europeo.
A maggior ragione perché arriva nel momento più complesso e più delicato per il fronte dell’apertura, quello cioè che aveva scommesso sulla possibilità di “superare Dublino” e, a livello europeo, aveva ottenuto che passasse il principio della redistribuzione di 160mila migranti (mentre in Germania si pensava ad accogliere “un numero non limitato” di profughi siriani, in Italia il Governo manteneva la rotta sulla necessità di “salvare quante più vite possibile” e dava inizio a una operazione dall’enorme valore simbolico come il recupero dei cadaveri dei migranti sul fondo del Mediterraneo, in Francia si accettava l’idea del “problema comune”, pur continuando a insistere sulla questione “guardie di frontiera”).
In molti avevano parlato di una sorta di "effetto Aylan", una sorta di spinta emozionale che aveva rafforzato la linea scelta dal Presidente della Commissione Europea Juncker. Poi, il percorso si era bruscamente interrotto dopo i fatti di Parigi. O meglio: la discussione era passata completamente in secondo piano, il fronte dell'accoglienza aveva lasciato campo libero ai detrattori, mentre i singoli Stati (Francia in testa, ovviamente) prendevano autonome iniziative per la limitazione della libertà di transito, con la reintroduzione di controlli alle frontiere, la sospensione di Schengen e norme più restrittive per l'accoglienza di profughi e rifugiati.
Ovviamente nulla di nuovo: la paura genera il bisogno di sicurezza ed è sempre funzionale alla conservazione del sistema. Come notava Chomsky: “Sfruttare l’emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell’analisi razionale e, infine, del senso critico dell’individuo”. Ciò che fino a qualche settimana prima appariva doveroso, giusto, equo, quasi un imperativo morale, viene ora seppellito mattone dopo mattone: paura, insicurezza, perdita di centralità, angoscia, sensazione di essere nel pieno di una guerra, di uno scontro di civiltà.
E si finisce con l’accettare l’emergenza, la limitazione delle libertà personali, la tensione come routine, l'angoscia come prassi del raccontare i fatti.
È evidente che in questa cornice parole come integrazione e solidarietà abbiano un altro peso e significato. E l’ingresso della questione “sicurezza” nel dibattito sull’accoglienza ha un effetto deflagrante, perché cassa tutte le obiezioni relative al fatto che il problema ce l'abbiamo in casa, che non ci siano collegamenti tra migranti e terroristi, che una società "chiusa" sia l'obiettivo stesso del terrore, che la repressione non abbia mai prodotto risultati e via discorrendo.
In un simile contesto, le reazioni agli stimoli della cronaca sono sempre accelerate, violente, enfatizzate. Colonia, la notte di Capodanno in Germania, è la tempesta perfetta.
Lo spiega perfettamente Helena Janeczek su Pagina99:
L’incontro tra l’aggressione sessuale collettiva realmente accaduta e l’immaginario dell’invasione barbarica che si scatena sulle “nostre donne” ha prodotto un collasso. Pare crollata la fiducia di poter gestire le grandi migrazioni secondo i principi e valori occidentali, come non era successo neanche dopo gli attentati di Parigi.
Ma c'è di più. I fatti di Colonia, per come sono e per come sono stati raccontati, evidenziano tutte le contraddizioni di chi mette sullo stesso piano solidarietà, accoglienza e integrazione. Che sono e dovrebbero rimanere questioni legate, necessarie l'una all'altra, ma concettualmente diverse. La scelta, operata a più livelli e più o meno consapevolmente, di negare la "specificità" del caso Colonia, poi, si è rivelata debolissima e ben poco suffragata dai fatti in sé. E ha lasciato campo libero a un'altra forma di propaganda, quella dei conservatori / reazionari che erano stati costretti a eclissarsi durante "l'ondata emozionale" a sostegno dei profughi.
Solo in quadro mutato, infatti, possono trovare consenso e legittimità concetti come quelli espressi dal neo direttore de La Stampa (giornale impegnato nei mesi passati in una strenua lotta a sostegno dell'accoglienza, vale la pena di sottolinearlo), che parla di "assalto tribale" e del riemergere di "tribù e clan come elementi di aggregazione" che "esaltano forme primordiali di violenza", anche in Europa. Una lettura (qui abbondantemente confutata, con argomenti piuttosto solidi), che poggia, per citare di nuovo la Janeczek, "sul fumo di immagini artefatte", ma fa leva sul "rimosso" di questi mesi: il conflitto, l'immagine parziale (e distorta) di multiculturalismo, gli stereotipi e i pregiudizi, la paura.
Di fronte a questa controffensiva culturale si rischia di essere impreparati, senza strumenti adeguati. Perché, traslando le riflessioni di Zizek, ci si trincera dietro il "non buttare il bambino con l'acqua sporca", dimenticando che "l'acqua sporca viene dal bambino". Ovvero, in questo caso, dal sistema dell'accoglienza a livello europeo, pieno di falle, contraddizioni, timori e incertezze dettate dal calcolo politico e dalla paura di perdere consensi prendendo decisioni giuste ma impopolari. Un sistema in bilico fra paternalismo ed egoismo, in cui la solidarietà è sempre concetto usato strumentalmente e a seconda della convenienza del momento.
L'inchiesta dello Spiegel, in parte riportata da Internazionale, non a caso parla di "trappola di Colonia", facendo il passo avanti necessario, ovvero non negando che i fatti in sé siano "terribili", non negando che esistano elementi "nuovi e specifici", non negando le correlazioni con le falle del sistema dell'accoglienza, ma compiendo una doppia operazione di demistificazione: sui fatti in sé (“La notte di capodanno sono successe tante cose a Colonia: molte contraddittorie, molte reali, molte immaginate; i fatti sono stati in parte frutto del caso, in parte esagerati e quasi tutti terribili”) e sulle ripercussioni. Aiutandoci a capire che no, un singolo episodio di cronaca non può farci abdicare dal nostro ruolo e dalla nostra missione: quella di aiutare chi scappa dalla guerra e dalla fame, quella di dare una risposta a una crisi globale senza rinunciare ai valori essenziali, quella di dimostrare che libertà, solidarietà e giustizia sociale non sono debolezze, ma l'unica strada percorribile.