Lasciando da parte la comunicazione non verbale e le elucubrazioni sul significato delle mani in tasca e delle pause che hanno accompagnato il discorso del Presidente del Consiglio al Senato, restano tanti punti interrogativi e tante questioni aperte. Matteo Renzi ha infatti raccontato ai senatori la sua idea di Italia, sintetizzando (molto) le proposte, sorvolando su alcuni punti chiave (le coperture finanziarie, ad esempio) e spiegando il doppio binario su cui intende muoversi il Governo.
Da un lato le ricette per la crescita e per l'uscita dal pantano: il rilancio del "valore" della scuola (con un occhio attento all'edilizia scolastica, peraltro già finanziata con 450 milioni dall'esecutivo precedente); lo sblocco totale dei debiti della Pubblica amministrazione (ha scandito bene "to – ta – le"), attraverso un diverso utilizzo della Cassa depositi e prestiti; i fondi di garanzia per le piccole e medie imprese e il taglio del cuneo fiscale (taglio corposo, con le risorse che dovrebbero arrivare dalla revisione della spesa); il piano per il lavoro (che sarà presentato entro marzo) accompagnato da quello per attrarre investimenti anche dall'estero (evidentemente il Destinazione Italia non è sufficiente) con semplificazioni burocratiche ed agevolazioni amministrative; la revisione del rapporto fra fisco e cittadini; la riforma della Giustizia con un "pacchetto organico che non lasci fuori niente", dal ramo civile a quello amministrativo (col ridimensionamento dei ruoli del Tar), fino a quella penale, che "troppo spesso arriva tardi e male"; gli investimenti, anche privati, nel settore della cultura e infine l'apertura al confronto e alla mediazione sul tema dei diritti (non è mancato un passaggio col quale Renzi si è caricato sulle spalle il provvedimento più controverso dell'ex ministro Kyenge, quello di uno ius soli temperato che garantisca la cittadinanza ai minori che abbiano completato un ciclo scolastico).
Sull'altro binario ci sono poi le riforme, il vero banco di prova del Governo, oltre che la scommessa sulla quale Renzi gioca gran parte della sua credibilità. In tal senso, due sono le novità rilevanti. Renzi ha declinato l'invito del Nuovo Centrodestra al congelamento della discussione sulla legge elettorale al momento successivo all'approvazione della riforma del Senato, spiegando che le due cose possono procedere parallelamente e che non ha senso fermare un cammino già avviato alla Camera (ovviamente il retropensiero è d'obbligo…). Poi ha offerto una "tregua" alle opposizioni sulle province: votare il ddl Delrio per non votare a maggio per le provinciali e poi riaprire il dibattito al momento della riforma del Titolo V. Una proposta coraggiosa, ma che con ogni probabilità sarà declinata da M5S e Forza Italia.
Insomma, in un discorso lungo e molto articolato, interrotto più da mugugni e risatine ironiche dai banchi dell'opposizione che dagli applausi, Renzi ha disegnato l'immagine di un Paese al quale serve necessariamente uno scatto, una spinta in grado di invertire la tendenza e lasciarsi alle spalle la crisi. In tal senso all'enfasi con la quale ha declinato alcuni concetti (scuola ed identità ad esempio), Renzi ha aggiunto una dose di non scontato europeismo (un tratto distintivo della sua poetica, certo, ma anche un concetto che non è tra i più graditi agli italiani in questo momento), non lesinando una spolverata di retorica populista. Su quest'ultimo aspetto ci sentiamo di essere piuttosto espliciti: l'idea che un Presidente del Consiglio debba considerare una nota di merito l'aver telefonato ad un neo – disoccupato o alla ragazza sfregiata dall'acido rimanda più alla propaganda elettorale che ad un discorso programmatico. E ricorda la strumentalizzazione del dolore che troppo spesso in Aula fanno le opposizioni, più che le chiamate innocenti di Papa Francesco (per dire…).
Ci sono poi delle cose che Renzi non ha detto, per scelta o per difficoltà intrinseca. In primis il segretario del Pd non ha spiegato quale sarebbe la discontinuità con il passato: eccezion fatta per la sua figura, l'esecutivo può contare sullo stesso impianto, sulla stessa maggioranza e sullo spoil system dei ruoli chiave. Stesso discorso per i margini di manovra, che restano risicati: Renzi non ha indicato coperture specifiche per alcuna delle sue proposte e l'esposizione così sommaria fa pensare più ad una serie di slogan che ad un articolato piano di sviluppo programmatico. Anche in questo caso il Governo Letta è liquidato in modo approssimativo, in un senso o nell'altro.
Non c'è una parola sulle carceri, né un accenno al Sud, tra le altre cose. Non c'è un riferimento al conflitto di interessi (eppure ieri Delrio…) né un ragionamento serio sulla corruzione che è e resta la piaga del nostro Paese. Troppo vago il ragionamento sui "diritti civili" (che vuol dire "compromesso"? In che direzione?), soprattutto nella considerazione che su alcuni temi mediare equivale a fallire. Scarsi i riferimenti al digitale e all'innovazione (formule vuote, in larga parte), forse per la ristrettezza dei tempi, forse per la consapevolezza della complessità delle questioni. Assente infine un qualunque accenno critico sull'operato dei membri dell'esecutivo precedente nei ruoli chiave: Esteri o Economia, ad esempio (per non parlare nemmeno di Istruzione e Sviluppo Economico).
Insomma, senza girarci intorno, è mancata quella schiettezza e quella nettezza di giudizio che caratterizzavano il Renzi della prima ora. Quello che non si sarebbe fatto imbrigliare e che sarebbe andato dritto al cuore dei problemi, senza compromessi tipici della vecchia politica. E non vorremmo che il primo (e più grande) compromesso Renzi lo avesse fatto con se stesso e che la ragion di Stato lo portasse ad annacquare le istanze che lo hanno traghettato prima al Nazareno, poi a Palazzo Chigi. Sarebbe un peccato, per lui e per il Paese.