Partiamo dal nocciolo della questione: la vittoria di Alessandra Todde in Sardegna ha un valore nazionale e dice tante cose.
Ha valore nazionale perché è la prima volta dal 2015 che la destra perde una regione che governava. Perché è la prima volta che i Cinque Stelle conquistano la presidenza di una Regione. E perché è la prima volta che l’alleanza Pd-Cinque Stelle vince un’elezione regionale.
Dice tante altre cose, tuttavia.
La prima: che i dissidi interni alla destra, segnatamente tra Fratelli d’Italia e Lega sono più grandi di quanto si pensi. Forse pure più dei dissidi interni al centro-sinistra, nonostante Carlo Calenda e Azione abbiano scelto di sostenere Renato Soru, rischiando di far vincere Paolo Truzzu, e il governo. Il potere è uno straordinario collante, certo. Ma l’assenza di una figura come quella di Silvio Berlusconi, in grado storicamente di federare anime e forze politiche che sembravano inconciliabili – nel 1994, addirittura, un partito secessionista e uno nazionalista – rischia di pesare tantissimo, nel determinare gli equilibri futuri di quella coalizione.
La seconda: che la destra ormai non è più in grado di crescere fuori dal perimetro del suo elettorato. Meloni non può spostarsi troppo al centro, altrimenti perde voti a destra in favore di Salvini. A sua volta, Salvini aspetta che Meloni si sposti al centro, per rubarle voti a destra. E, al centro, Forza Italia, senza Berlusconi, non è in grado di recuperare mezzo voto in uscita dal centro sinistra o dall'astensione.
La terza: che il perdurare di queste difficoltà della destra rappresenta un’ottima occasione per la “non destra” che va da Azione ai Cinque Stelle, passando per il Pd e per l’Alleanza Verdi e Sinistra. A cui basta proporre una candidata credibile come lo è stata Alessandra Todde, e allearsi,, a volte senza nemmeno allargare il campo fino ai suoi confini potenziali, com’è accaduto in Sardegna, per diventare un serio competitor elettorale.
La quarta: che tuttala narrazione sull’egemonia meloniana nel Paese è, per l’appunto, una narrazione, più o meno in buona fede. Meloni ha vinto le elezioni del 2022 col minimo risultato mai raggiunto nella sua storia trentennale dalla coalizione di destra, per assenza di avversari, sfruttando una legge elettorale cucita a pennello – dall'allora Pd renziano – per far vincere la destra. Dopo aver vinto, complice anche una situazione congiunturale difficile e un programma che definire libro dei sogni è riduttivo, non ha realizzato mezza promessa e ha inanellato disastri su disastri, da Cutro a Pisa.
La quinta: che l’unica cosa che dovrebbe fare l’opposizione da qui in avanti è, semplicemente, smettere di suicidarsi. Provando a trovare quattro o cinque punti di contatto su cui costruire un’alternativa. E a colpire divisa il governo anziché cannoneggiare sugli altri partiti d’opposizione. Va dato atto a Elly Schlein – il cui presunto “fallimento” da segretaria è, al pari, un’altra narrazione che non trova riscontri fattuali in un partito che cresce e dialoga con chi gli sta attorno come non gli succedeva da anni – di aver perseguito quest’obiettivo dal giorno della vittoria alle primarie, giusto un anno fa.
Dargliene atto, oggi che festeggia la prima vera vittoria del suo mandato, è il minimo sindacale.