Non c'è modo migliore di parlare della comunicazione di Giorgia Meloni se non partire dalla sua ultima apparizione pubblica. Quella di Atreju è stata un successo indiscutibile, per come ha monopolizzato l'agenda politica e valorizzato ulteriormente una kermesse nata come festa della giovanile di partito, ma poi diventata una vetrina della nuova-vecchia destra e delle sue ambizioni. Anche grazie al ruolo della presidente del Consiglio, quest'anno è stata una vera e propria ostentazione di forza della galassia meloniana e della sua forza attrattiva. Non una semplice passerella di parlamentari e ministri, ma piuttosto la celebrazione di una comunità e della sua piattaforma ideologica e politica. Una comunità che sente di avere finalmente in mano il potere e vuole dimostrare di avere forza, competenza e sostanza per esercitarlo. A cominciare dalla capacità di imporre la propria narrazione sui principali temi che interessano la società italiana. Missione, quest'ultima, pienamente compiuta anche grazie all'aiuto più o meno consapevole dei tanti esponenti di minoranza accorsi ad Atreju, che hanno legittimato e, salvo rare eccezioni, addirittura rafforzato l'operazione della destra italiana di porsi come vera "interprete dei cambiamenti del nostro tempo".
Chi ha seguito i dibattiti, in effetti, non potrà che concordare: Atreju è stato un grande racconto del mondo con gli occhi della destra, la narrazione collettiva di una realtà fatta di certezze presenti, possibilità future, di alleati potenti e di nemici da combattere. Giorgia Meloni è il centro di questa galassia, che poi è parte di un universo più ampio, di cui Musk e Sunak sono esponenti di primo piano. E, in effetti, l'intervento della leader di Fratelli d'Italia è stato una perfetta rappresentazione del tentativo di far coincidere la visione del mondo della propria comunità con l'orizzonte di governo, secondo una linea che sta perseguendo da mesi, sia pure con alterni risultati. L'idea di Meloni è quella di convincere gli italiani che non ci sono piani diversi o distinti: l'azione di governo va nella direzione indicata dal "sentire" del popolo, ogni scelta viene fatta per rispondere alle "vere" necessità dei cittadini, non ci sono sovrastrutture ideologiche o strane elaborazioni concettuali che possano influenzarla nelle decisioni.
È una versione basica, ma piuttosto efficace, di populismo peronista di orientamento conservatore, di cui Meloni è una delle migliori interpreti contemporanee. Presentarsi come quella che “viene dal basso”, l’underdog che è arrivata in alto malgrado tutto e tutti, comporta anche la necessità di individuare un nemico, seguendo lo schema del dualismo popolo-elite, che è alla base di ogni narrazione populista. Meloni in questo è bravissima, perché non si limita a scegliere un totem contro cui indirizzare i suoi strali o a cui dare la colpa di errori e difficoltà. Lei cerca di coprire tutte le basi, individuando nemici e avversari a seconda del momento, della situazione, ma soprattutto del target specifico a cui intende rivolgersi.
C’è l’Europa egoista, dominata da quei cattivoni di francesi e tedeschi, quando si tratta di spiegare agli italiani perché le è impossibile mantenere le assurde promesse sull’immigrazione fatte in campagna elettorale. Ci sono gli sprechi dei governi precedenti quando si tratta di giustificare con francesi e tedeschi (e non solo) le difficoltà finanziarie del nostro Paese. C’è Elly Schlein, la nemica perfetta perché le consente di usare le due paroline magiche, "radical chic", ma anche la più pericolosa, perché le rende impossibile usare una parte importante del suo repertorio standard. C'è Giuseppe Conte, che le contende una buona fetta di elettorato, ma che le è utile per coprire un altro campo: quello della politica pragmatica e rigorosa. Ci sono "tutti gli altri", alla bisogna: con cautela ci si può spingere fino a toccare Draghi, quando c'è da ricordare ai suoi di essere stata l'unica a opporsi al maxi inciucio. Lo schema è sempre lo stesso: vittimismo, deresponsabilizzazione e continua creazione di dualismi sullo schema popolo-elite.
Proprio perché il progetto della destra è più ampio, poi, questo meccanismo è applicato a una vasta gamma di argomenti e situazioni. L'attacco a Chiara Ferragni si inserisce perfettamente in questo schema. Tocca non tanto due influencer con cui non corre buon sangue, quanto soprattutto un mondo che l'elettorato di riferimento di Meloni non apprezza particolarmente (eufemismo): community molto ricettive nei confronti di messaggi progressisti e inclusivi, veicolati appunto da personaggi come Fedez e Ferragni. In molti hanno obiettato che una presidente del Consiglio non debba occuparsi di questioni del genere, avendo altri compiti ed emergenze da gestire. Ma Meloni, come detto, non ragiona secondo questa impostazione: troppo ghiotta l'occasione di sottolineare l'ipocrisia e la distanza dal mondo reale di chi si "oppone" alla visione del mondo della sua comunità, troppo sfumata la distinzione fra spettacolo e politica, troppo debole l'idea che Ferragni sia una semplice "influencer". È un'opportunità comunicativa incredibile, che non è in contraddizione col modo in cui lei si è sempre posta e si pone. Giustamente, la coglie e lo fa con grande efficacia.
L'attacco a Saviano è invece più tradizionale, per così dire, perché riflette quella sindrome dell'assedio, che è una componente centrale nella narrazione vittimista (gli intellettuali di sinistra che occupano i media, condizionano le istituzioni e odiano la destra di popolo); così, a colpi di fake news (l'attico a New York) e banalizzazioni, Meloni usa ancora il dualismo alto-basso. La colpa di uno scrittore, di un giornalista, ai tempi della destra è semplicemente quella di non aderire al "progetto", di raccontare scientemente un'altra verità. Lo ha spiegato bene il ministro della Giustizia Nordio, ormai completamente nel mood meloniano: "Saviano non può continuare a pontificare ogni giorno che questo è un paese di mafiosi e qualsiasi cosa accada e faccia chi lui non ama è un favore alla mafia". Non può.