Sono state molte le critiche nei confronti di Luigi Di Maio dopo il clamoroso flop del Movimento 5 Stelle alle Elezioni Europee. Alcune sensate, altre piuttosto ingenerose, altre ancora profondamente sbagliate nel merito. Certo, non ha aiutato l'assenza di dichiarazioni e di coraggio nell'immediato post spoglio (per citare il maestro Nanni, “Di Maio, insomma preparati, se perdi scendi, fai una dichiarazione ferma e dignitosa”). E non ha aiutato nemmeno il modo in cui Luigi Di Maio ha deciso di rilanciare la sua figura di capo politico del Movimento, con un voto con poco senso (chi aveva messo in discussione quel ruolo?), dall'esito scontato e comunicato peraltro in maniera piuttosto ridicola (il record del mondo…). Ma a parere di chi scrive, appare azzardato sostenere che il risultato disastroso dei 5 Stelle sia una sua esclusiva responsabilità, come se un suo passo indietro, come capo politico o pluriministro, possa determinare una immediata inversione di tendenza. La crisi è più profonda e molto più grave.
C'è stata una evidente involuzione in questi mesi, amplificata da un cambio di passo nella comunicazione e nell'atteggiamento verso la Lega che ha spiazzato molti elettori. Dopo mesi a rincorrere Salvini, dopo aver abiurato a un principio cardine del Movimento, dopo aver ceduto su battaglie simboliche, non deve essere sembrato credibile né il "risveglio" di Di Maio e dei rappresentanti grillini nel governo, né una campagna elettorale aggressiva più verso la Lega che verso i "nemici comuni". Scelte che hanno irritato l’elettorato governista, che ha pensato che il vero “voto utile” per la propria causa fosse quello al ministro dell’Interno, e che non hanno convinto molti di quelli che avevano invece votato 5 Stelle perché delusi dall'offerta politica tradizionale. Elettori che, in larghissima maggioranza, sono rimasti a casa.
Il punto, a mio avviso, è proprio questo: capire perché il M5s ha deluso un numero così ampio di elettori, che si erano rivolti alla creatura di Grillo e Casaleggio perché abbandonati dai partiti, privi di una casa politica o semplicemente desiderosi di mandare un messaggio di cambiamento al sistema. Sono prima di tutto i numeri a dimostrare di essere in presenza di un flop (per molti preludio di una completa dissoluzione) che va in qualche modo oltre Di Maio e oltre il gruppo dirigente che lo circonda. E che va oltre anche il turning point di tutta la politica italiana, ovvero la scelta suicida e pericolosa per il Paese di portare Salvini al governo, agli Interni e de facto al 34%.
Bisognerebbe fare un passo indietro e chiedersi cosa è diventata la forza "fieramente populista", nata dal vaffanculo a un intero sistema e con l'obbligo morale di rompere la ruota, una volta entrata nelle istituzioni e trasformatasi in forza politica a tutti gli effetti. Il punto focale dell'intera esistenza del Movimento era la discontinuità con le forme e i metodi della politica tradizionale. Lo stato attuale del M5s dice tutt'altro: un partito blindato e non scalabile, in cui c'è zero mobilità interna e i parlamentari non sono portavoce neanche di loro stessi, figurarsi dei cittadini. Già la prima legislatura era stata disastrosa, per incapacità, impreparazione della classe dirigente, limitatezza della piattaforma programmatico-ideologica e resistenze di ogni tipo, interne ed esterne al sistema. Cinque anni in cui avevano prevalso i vaffanculo e le lotte senza quartiere al "nemico", cinque anni di muro contro muro, cinque anni a legittimarsi come unici interpreti della volontà popolare e a raccontarsi la favola delle elite corrotte nemiche della povera gente. Nei lunghi mesi di “conoscenza” delle stanze dei bottoni e dei metodi della politica, prevaleva anche l’idea di smantellare passo dopo passo l’impianto originario del Movimento, con la convinzione di dover rischiare qualcosa pur di raggiungere il prima possibile l’obiettivo. Così si era messo in moto un meccanismo vizioso, che premiava integralisti e ortodossi, yes man e volti da talk show, a discapito di chi nel frattempo stava facendo la legna, in Parlamento e sui territori.
Il problema era che, lo abbiamo scritto decine di volte, c'era un obiettivo ma non un progetto: la lotta contro la "Ka$ta" non era accompagnata da una riflessione sui principi fondanti del nuovo sistema, gli spazi di democrazia interna si riducevano costantemente e il movimento diventava escludente e non inclusivo, chiudendosi a qualunque cosa potesse mettere in discussione il raggiungimento della missione finale. Che era il potere. Ma senza un contesto, una storia, una somma di esperienze e un ricambio di idee, tutto si riduceva al potere per il potere. E, proprio come nei tanto odiati partiti tradizionali, all'autoconservazione della classe dirigente, un gruppetto con sempre maggiore centralità e visibilità.
Dopo il panchinamento di Beppe Grillo, il Movimento si era per la prima volta dotato di un leader spendibile, una figura iconica in grado di rappresentarlo in toto e di attrarre consenso. Certo, a ben guardare la stella di Di Maio era nata in un altro contesto (e in un processo di polarizzazione anche dall’emergere della figura di Matteo Renzi), ma il politico campano era stato bravo nell’incarnare quel senso di discontinuità che chiedevano gli elettori, facendo passare completamente in secondo piano le contraddizioni col modello grillino di politica (che vuole un movimento che funzioni a prescindere dal leader, centrato sull’intelligenza collettiva mediata dalla rete e sulla partecipazione attiva dei cittadini nei luoghi della politica, reali e virtuali).
Il trionfo del 4 marzo, la cui genesi ha molti padri, aveva convinto i dirigenti 5 Stelle che questa fosse la strada giusta. E quando Luigi Di Maio ha avuto una chance di prendere il potere, l'intero universo dei 5 Stelle si è trovato di fronte a una situazione kierkegaardiana. I 5 Stelle si sono sentiti in dovere di rischiare, di dimostrare coi fatti cosa volesse dire "essere né di destra né di sinistra", accettando un compromesso che avrebbe cambiato tutto. E perdendosi. Non è tanto, non è solo, la scelta di Salvini come interlocutore ad aver messo Di Maio e soci su un piano inclinato. È l'apertura alle altre forze politiche "pur di prendere il potere" il compromesso che ha fatto cadere del tutto il velo che copriva le nudità del Movimento. Il processo di istituzionalizzazione che ne è seguito, guidato da Di Maio, è stato la naturale conseguenza di quella scelta, che contravveniva il principio supremo dei 5 Stelle: mai alleanze con nessuno, avanti fino al 51% dei consensi.
Quella scelta, ovvero trattare con gli altri partiti, che molti analisti hanno giudicato come "responsabile", ha definitivamente chiarito che il Movimento 5 Stelle fosse un partito come gli altri. Un mare aperto, dove ci sono tanti pesci ma anche tanti squali. E se ci arrivi senza protezioni il rischio è di farti logorare lentamente o addirittura mangiare in un sol boccone. Vanno lette in questo senso, a mio parere, le parole di Roberto Fico nel redde rationem dopo la batosta elettorale. Se il compromesso e la scelta di istituzionalizzare il Movimento possono essere intesi come necessari o addirittura inevitabili, il problema è che i 5 Stelle non hanno ancora le spalle larghe per reggere il peso delle conseguenze di un simile cambiamento. Non può bastare un "contratto di governo", pieno di formule vuote e impegni "concreti", servono bussola, coordinate e orizzonti. Dice Fico:
In pochissimo tempo abbiamo fatto dei passi da gigante, probabilmente molto impegnativi rispetto all’essere un movimento molto giovane. Su tanti temi è necessario individuare una strada, riflettendo e ragionando in profondità. Ed è proprio per questo che abbiamo bisogno di costruire un percorso identitario forte, con valori e principi sempre più chiari e saldi che nessuno potrà mai calpestare. Né all’interno né all’esterno. L’identità è ciò che ti permette di non perdere mai la rotta anche se attraversi una tempesta. E allora anche la mediazione e il compromesso, che in una repubblica parlamentare vanno cercati, avranno confini altrettanto saldi, chiari e accettabili.
Ecco, siamo al punto centrale: un partito come gli altri, che ha rinunciato per scelte di dotarsi dell’unica cosa che giustifica l’esistenza di un partito e ne legittima il ruolo e il peso, la piattaforma ideologica, prima ancora che politica. Perché va bene essere “oltre”, purché si sia qualcosa e non solo contro qualcosa. Soprattutto se il nemico non conta più nulla…