Il dato numerico è inconfutabile: le Elezioni Europee 2019 sono state il trionfo della Lega di Matteo Salvini. Il partito guidato dal ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio sfonda ovunque e a livello nazionale totalizza un clamoroso 34,3%, sfondando la barriera dei 9 milioni di voti. Il dato è impressionante se confrontato sia con quello raccolto alle Elezioni Europee del 2014, quando la Lega prese il 6,2% con meno di 1,7 milioni di voti, sia con quello delle Politiche del 4 marzo 2018, quando il Carroccio ottenne alla Camera il 17,4%, pari a meno di 5,7 milioni di voti in termini assoluti.
Analizzando nel dettaglio il risultato della Lega abbiamo un predominio nel Nord Ovest (40,6% totale e primo partito in tutto le Regioni), nel Nord Est (41% totale e primo partito ovunque, addirittura in Trentino Alto Adige e nella rossa Emilia) e nell’Italia Centrale (33,4% e primo partito ovunque tranne che in Toscana). Al Sud Salvini è alle spalle del Movimento 5 Stelle ma ottiene il massimo storico della Lega, con il 22,5% nella circoscrizione Italia meridionale e il 20,8% nella Circoscrizione Isole.
Il flop del Movimento 5 Stelle alle Europee
Il Movimento 5 Stelle, partner di governo del partito di Salvini, esce con le ossa rotte dalla consultazione elettorale. Emblematica l’assenza totale di dichiarazioni dopo la diffusione delle proiezioni, con Luigi Di Maio che parlerà solo oggi pomeriggio verso le 14:30 al ministero dello Sviluppo Economico. Partiamo dai numeri, mai così chiari. Il Movimento 5 Stelle prende il 17% dei consensi e circa 4,5 milioni di voti. Alle disastrose Europee del 2014, quelle del 40,8% del PD di Matteo Renzi, la compagine allora guidata da Beppe Grillo prese il 21,1% e 5,8 milioni di voti; alle politiche del 4 marzo 2018 i Cinque Stelle presero il 32,7% dei consensi e 10,7 milioni di voti. In poco più di un anno, il M5s ha perso qualcosa come 6,2 milioni di voti, tra astenuti e cittadini che hanno deciso di premiare un’altra forza politica.
Il crollo è stato generalizzato ma molto marcato al Nord, dove i grillini si sono fermati poco oltre il 10%: qualcosa si è inceppato nella macchina del consenso a tutto vantaggio dell’alleato con cui è stato stretto un patto di governo neanche un anno fa. Come abbiamo provato a spiegare qui, evidentemente l’elettorato “governista”, quello soddisfatto dell’operato del governo gialloverde, ha scelto di premiare Matteo Salvini, politico che meglio sembra poter rappresentare lo “spirito” del cambiamento chiesto nel marzo scorso, bocciando Di Maio e il suo tentativo di istituzionalizzare un movimento che era prima di tutto di protesta e di discontinuità rispetto anche alle forme del passato. La capacità di Salvini di dettare l’agenda politica (anche e non solo ai colleghi di governo) ha fatto il resto, trasformando davvero la consultazione in un referendum pro o contro la Lega e le mosse (più simboliche che altro) del ministro dell'Interno.
Il Partito Democratico esulta (ma per cosa?). Sinistra perde rappresentanza
Anche in questo caso la cosa migliore è quella di affidarsi prima di tutto ai numeri. Il Partito Democratico di Nicola Zingaretti ottiene il 22,8% dei voti e circa 6 milioni di consensi netti. Rispetto alle Europee del 2014 ciò significa che i democratici hanno perso 5,2 milioni di voti e ben 18 punti percentuali (il PD di Renzi prese infatti 11,2 milioni di voti e il 40,8%), ad affluenza quasi identica. Ma attenzione, perché il quadro cambia poco anche con il paragone con le ultime politiche: il 4 marzo 2018 il PD prese il 18,7% ma 6,1 milioni di voti. Insomma, se è chiaramente possibile parlare di una leggera inversione di tendenza e se è stato centrato l’obiettivo più o meno dichiarato della nuova segreteria, il sorpasso sui 5 Stelle, allo stesso tempo appare quantomeno azzardato l’entusiasmo con cui in casa democratica è stato salutato il risultato elettorale.
Anche perché c’è una questione che non può non essere oggetto di analisi. La polarizzazione che i democratici hanno cercato e cercano ancora (ribadita anche dalle parole di Zingaretti, che ha parlato apertamente di nuovo bipolarismo), con tanto di voto utile “suggerito” agli elettori, per il momento ha avuto come unico effetto quello di azzerare la rappresentanza delle restanti anime della sinistra e del centrosinistra.
+Europa, che si giocava molto della propria sopravvivenza politica, non ha raggiunto il quorum e ha una situazione interna che definire complicata è riduttivo. Non ha aiutato lo schiacciamento del dibattito su temi di politica interna, certo, ma la creatura europeista di Emma Bonino sembra essere priva di qualunque capacità attrattiva e, tra tatticismi e riposizionamenti, ha perso anche la vecchia connotazione radicale su temi di ampio respiro. A sinistra (si partiva da 3 rappresentanti nel GUE), dopo essersi nuovamente divisi, senza riuscire a trovare né la quadra né un leader di riferimento, le due formazioni principali Europa Verde e La Sinistra hanno raccolto rispettivamente il 2,3% e l’1,7%.
Non sarà certamente “colpa esclusiva” del PD, ma la realtà dei fatti e i numeri parlano chiaro: tra divisioni, assenza di rappresentanza, mancanza di leader e distanze programmatico-ideologiche, non ci sono le basi minime per costruire l’alternativa a sinistra al governo gialloverde o alla coalizione nero-blu Meloni&Salvini. Si festeggia perché la casa ha retto al terremoto, insomma, ma ci si dimentica del dato di fondo: la casa non ha più le fondamenta e anche il tetto è da rifare.
Forza Italia è in dissoluzione, la Meloni in rampa di lancio
In quello che era una volta il centrodestra ci sono i due lati della medaglia. C’è Forza Italia, che prende come dato nazionale l’8,8% e 2,3 milioni di voti, insomma peggio di ogni più infausta previsione e sotto la pur bassa asticella del 10% messa dai dirigenti forzisti più o meno esplicitamente. In termini assoluti è esattamente la metà di quanto preso alle ultime elezioni politiche (cifra che valeva il 14% del totale) e alle ultime elezioni europee (nel 2014 il partito del Cavaliere prese il 16,8%). Inoltre, in questa tornata, FI ha beneficiato anche dei voti dell’UDC e solo così ha tenuto al SUD e nelle Isole. Stavolta non vale nemmeno la scusante dell’assenza di Silvio Berlusconi, che era candidato capolista ovunque tranne che nell’Italia centrale: resta il valore aggiunto bassissimo dei singoli candidati che, senza il traino del leader, hanno portato pochissimo alla causa. La realtà è che FI è da tempo in lento dissolvimento, con il fuggi fuggi verso la Lega non solo degli elettori, ma anche dei dirigenti a livello territoriale. Salvini, alternando bonapartismo a “buonsenso”, è riuscito ad aprire le porte della sua comunità anche ai moderati e ai liberali, chiudendo ancora di più lo spazio di manovra a Berlusconi.
Per un leader che piange, ce n’è una che ride. E di gusto, consapevole di aver smentito presagi e anche sondaggi. Giorgia Meloni porta Fratelli d’Italia al 6,5% dei consensi, dimostrando di aver consolidato il proprio elettorato (anche con alcune spregiudicate operazioni sul livello territoriale, in particolare al Sud) ma soprattutto di essersi ritagliata uno spazio importante a destra. FdI è la destra sociale e sovranista che non si sovrappone ma si somma alla destra populista di Matteo Salvini, beneficiando anche dei voti dell’elettorato di estrema destra che giudica improponibile l’alternativa offerta da Forza Nuova e Casapound (che collezionano rispettivamente 40mila e 90mila voti, dai circa 300mila che solo CP aveva alle politiche del 2018). Con questi numeri, oltre 1,7 milioni di consensi, Fratelli d’Italia può essere determinante per il piano di Salvini di svuotare definitivamente Forza Italia e strappare con i 5 Stelle una volta scongiurato l’aumento dell’IVA e portata a casa una prima tranche di flat tax.
E gli altri partiti alle Europee?
Tagliamo corto: più o meno vanno tutti male, tranne i comunisti di Rizzo (che beneficia forse di voti in uscita da Potere al Popolo, non presente alle Europee) e il Partito Animalista. Perde la metà dei voti in termini assoluti il Popolo della Famiglia di Mario Adinolfi e il Partito Pirata non riesce a imporsi, fermandosi a meno di 60mila voti.