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Opinioni

Che vi piaccia o no, questo è ormai un referendum sul renzismo

“Ho sbagliato a personalizzare troppo il referendum sulla riforma della Costituzione”, dice Renzi. Senza troppa convinzione, però. Perché il Presidente del Consiglio sa bene che il referendum non si vince giocando in difesa e che, piaccia o meno, questo è prima di tutto un voto pro o contro “il renzismo”.
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Ora lo dice anche lui: “Ho sbagliato a personalizzare troppo il referendum sulla riforma della Costituzione”. Da settimane si discute sull’errore della personalizzazione del referendum sulla riforma della Costituzione (il principale cavallo di battaglia della minoranza del PD) e sulla necessità di cominciare a parlare del “merito” delle modifiche alla Carta. Paradossalmente, però, allo stesso tempo si continua a ragionare sul futuro del Governo e del Presidente del Consiglio, nel caso in cui gli italiani bocciassero il progetto di riforma Renzi – Boschi. Lo stesso Renzi, mentre fa mea culpa sulla personalizzazione, continua a ribadire il legame strettissimo tra il Governo e la riforma, aggiungendo (consapevolmente) confusione a confusione.

Il caso del momento è rappresentato dalle dichiarazioni alla Versiliana, sul fatto che “indipendentemente dall’esito del referendum” si voterà nel 2018, alla scadenza naturale della legislatura. Per molti si tratta dell’anticipo del “passo indietro” rispetto alla promessa di ritirarsi dalla politica nel caso di una sconfitta al referendum. Per altri è soltanto una boutade, considerato che nel caso in cui Renzi si dimettesse la palla passerebbe al Presidente della Repubblica, che sarebbe chiamato a valutare la possibilità di affidare ad altri l’incarico di formare il governo, in alternativa all’immediato ritorno alle urne. Per altri ancora, è semplicemente la conferma del fatto che "Renzi racconta balle".

La frase di Renzi, a parere di chi scrive, va probabilmente letta in relazione a un'altra questione, quella della data del referendum e dei meccanismi istituzionali. Appare ormai chiaro che la consultazione si terrà a metà novembre, nel pieno della discussione della legge di stabilità, quando non è ipotizzabile pensare a dimissioni del Governo in carica. Un eventuale addio di Renzi a Palazzo Chigi, dunque, non potrebbe che arrivare dopo l'approvazione della manovra, dilatando i tempi delle successive consultazioni / verifiche di una maggioranza alternativa. Dire "si vota nel 2018", equivale sostanzialmente a garantire che il PD sarebbe disponibile a garantire i voti necessari a un esecutivo "ponte", che si occupi di accompagnare la manovra e soprattutto di riscrivere la legge elettorale, considerato che, se gli italiani bocciassero la riforma si andrebbe al voto con due sistemi elettorali diversi per Camera e Senato, con la prospettiva concreta di una doppia maggioranza nei due rami del Parlamento.

Che Renzi possa rimangiarsi la parola e, in caso di sconfitta, restare ancora a Palazzo Chigi, appare molto, molto difficile. Oltre all'eco mediatica che avrebbe il clamoroso dietrofront, vale la pena di ricordare che, nella lettura dei renziani, questo esecutivo è nato per fare le riforme. Renzi lo ha detto e ridetto in tutte le salse: se fallisce nella sua missione principale, questo esecutivo non ha più ragione di esistere. Un passo indietro, al punto in cui si è spinto il segretario del PD, non appare coerente neppure con i "tempi" della campagna elettorale per il referendum stesso e, soprattutto, significherebbe privare il fronte del sì del suo più forte strumento comunicativo: la dicotomia tra la “stabilità” e “il caos”.

In questi lunghi mesi di campagna elettorale dettare l'agenda diventerà essenziale, cruciale. Il Presidente del Consiglio sa bene che i duelli a colpi di fioretto con gli avversari politici, i botta e risposta su Twitter, lo stillicidio di dichiarazioni a mezzo social non spostano "direttamente" un voto, ma possono contribuire a creare il clima adatto nel quale innestare la propria narrazione. Quella del rinnovamento ostacolato dal fronte eterogeneo e raccogliticcio della conservazione; quella dell'Italia che dice sì e crede in sé stessa opposta a chi "dice sempre e solo no"; quella dei giovani contro i vecchi (per ora ci limitiamo a notare che la questione generazionale è del tutto assente dal dibattito di questi mesi e che in molti ne stanno sottovalutando il peso, convinti che "tanto a votare ci vanno solo gli anziani"); quella di chi vuole cambiare contro chi vuole lasciare tutto come è sempre stato.

Di fronte a una scelta del genere, non ha senso continuare con la manfrina della personalizzazione del referendum. Una campagna di questo tipo è già "personalizzata", è la summa del renzismo, perché modellata sul progetto politico del Presidente del Consiglio. Piaccia o meno, questo è e resta un voto (anche) pro o contro Renzi.

Perché, come avemmo modo di scrivere, “la riforma della Costituzione, tanto nel merito quanto nel metodo utilizzato per approvarla in Parlamento, costituisce una summa efficace del "renzismo": dirigismo, centralismo, fastidio per i tempi lunghi della burocrazia, rinnovamento "istituzionale" ma senza salti nel buio, utilizzo del consenso personale come leva politica, mediazione "result oriented" e una certa dose di spericolatezza nelle alleanze". È una riforma renziana in tutto e per tutto, anche nelle piccole modifiche "tattiche" e nella confusione di fondo: se gli italiani la bocciano, bocciano anche Renzi”.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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