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Elezioni europee 2024

Che peso hanno davvero le candidature dei leader dei partiti alle elezioni europee?

Quanto pesa la candidatura del leader sul risultato del partito alle elezioni europee? È la domanda che sta emergendo con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale: ne abbiamo parlato con Francesco Piccinelli Casagrande, analista a Bruxelles e collaboratore di Piave Digital Agency, secondo cui dall’analisi dei dati passati emerge un aspetto interessante.
A cura di Annalisa Girardi
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Si avvicina la data delle prossime elezioni europee e l'attenzione si concentra sui partecipanti alla corsa. Soprattutto sulle (possibili) candidature dei leader di partito. Da poco più di un mese – cioè da quando Giorgia Meloni, nella conferenza stampa di fine anno con i giornalisti, ha detto di stare ancora valutando se presentarsi o meno – si è aperto il dibattito sull'opportunità che anche politici di primo piano, che solitamente ricoprono incarichi nelle istituzioni nazionali, si candidino: si tratta infatti di una partecipazione "simbolica", per attirare gli elettori alle urne, nella consapevolezza che non si rinuncerà alla carica nazionale per quella europea. I giudizi, sia in maggioranza che in opposizione, sono spaccati.

Partiamo dal centrosinistra. La segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, non si è ancora espressa in merito, spiegando che prima si dovrebbe pensare al progetto da portare al voto e poi alla squadra. Insomma, non ha escluso la possibilità di mettersi in gioco. Il presidente del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, invece, ha messo in chiaro di non avere alcuna intenzione di candidarsi, spiegando che sarebbe "un inganno" per i cittadini.

Anche nel centrodestra non sono tutti dello stesso parere. Antonio Tajani, segretario di Forza Italia, alla fine si è detto disponibile a candidarsi se glielo dovesse chiedere il suo partito, pur sottolineando che la decisione dovrebbe essere presa insieme agli altri leader di coalizione. Anche Giorgia Meloni, alla guida di Fratelli d'Italia, ha detto che valuterà insieme agli alleati il da farsi, ma ha sottolineato che confrontarsi con il consenso dei cittadini sia sempre una cosa positiva. Il leader della Lega, Matteo Salvini, invece ha annunciato che non si candiderà: non ha dato particolari giudizi di merito, ma ha detto di essere già abbastanza impegnato a fare il ministro dei Trasporti e il segretario del suo partito.

Va precisato che Salvini ricopriva questi incarichi (anche se allora era ministro dell'Interno e non dei Trasporti) anche nel 2019, quando fu campione di preferenze all'ultima tornata elettorale europea. Era anche vicepresidente del Consiglio – come lo è oggi –  del governo gialloverde, presieduto da Giuseppe Conte. In quell'occasione Salvini, che appunto rinunciò all'incarico, ottenne 2,3 milioni di preferenze e la Lega fu il partito con più voti, esattamente il 34,26%.

Credits: Parlamento europeo
Credits: Parlamento europeo

Guardando a questi numeri sorge la domanda essenziale di tutta la questione: quanto pesa la candidatura del leader sul risultato del partito alle elezioni europee?

Ne abbiamo parlato con Francesco Piccinelli Casagrande, analista a Bruxelles e collaboratore di Piave Digital Agency, che in questi mesi è al lavoro sull'analisi della campagna elettorale. Secondo lui, guardando al peso delle "candidature simboliche" sulle scorse tornate europee, emerge un aspetto interessante: "Spulciando Eligendo, l'archivio italiano delle elezioni, si scopre che i leader non contano tantissimo nel guidare le performance elettorali. Quello che conta é il rapporto delle opinioni pubbliche col governo in carica – spiega a Fanpage.it – Nel 2004 la lista Uniti per l'Ulivo prese il 30% in un momento di difficoltà del centrodestra al governo, mentre nel 2009 il governo Berlusconi (PdL) ottenne un grande risultato proprio in virtù del fatto che il centrodestra stesso era al governo dopo il fallimento del secondo Prodi. Stessa cosa accade nel 2019 alla Lega. Nel 2014 era al 5%, mentre nel 2019 ottenne un ottimo risultato grazie al fatto che il leader (candidato, peraltro) era ministro dell'Interno".

Secondo Piccinelli Casagrande "questa dinamica conferma quello che sapevamo già, ovvero che in Italia le elezioni europee sono un referendum non tanto sui leader, quanto sul governo in carica, come testimonia il caso della Lega". E ancora: "La controprova è nel fatto che Silvio Berlusconi, capolista in quasi tutte le circoscrizioni, fece il pieno di preferenze nel 2019 senza che il suo risultato personale riuscisse a trascinare Forza Italia. A conferma di quanto detto fin qui, il caso del 2014, dove Renzi, senza bisogno di candidarsi, trascinò il PD a un risultato senza precedenti, in virtù di una scelta di policy domestica: gli 80 euro in busta paga".

Se in Italia, quindi, possiamo dire che la corsa alle europee può funzionare come una bilancia per misurare il consenso dell'elettorato verso il governo, all'estero le cose funziono diversamente. Piccinelli Casagrande spiega: "In Belgio, gli agricoltori sono andati a protestare davanti al Parlamento Europeo a campagna elettorale in corso, mentre la stampa anglofona parla di Unione Europea di destra estrema che si starebbe affermando. In Germania c'è lo spauracchio-AfD che sta mobilitando parte dell'opinione pubblica ma, a quanto pare, in ambito domestico. In generale, però, la campagna elettorale per le europee non muove le prime pagine dei giornali".

Per quanto riguarda le candidature negli altri Stati membri, l'analista aggiunge: "In Francia, la cosa interessante é che i candidati sono giovani, come se si volesse ‘rappresentare l'Europa di domani' o usare le istituzioni europee come banco di prova per le giovani leve dei partiti. Ci sono anche alcuni casi, Belgio in particolare, dove le istituzioni europee sono il ‘buen retiro' della classe dirigente di ieri: Elio di Rupo (ex premier federale), infatti, é capolista per i socialisti in Vallonia – la parte francofona del Paese".

Per ricapitolare, secondo Piccinelli Casagrande ci sarebbero un paio di tendenze che emergono esaminando le funzioni degli europarlamentari: "Da un lato, ci sono candidature di rilievo nazionale che cercano un posizionamento, da un lato ci sono giovani emergenti, da un altro lato ancora c'é la figura professionale dell'eurodeputato. Gualtieri, prima di diventare ministro dell'Economia sotto il Conte II era esattamente questo. Brando Benifei é passato da giovane emergente, a eurodeputato in quanto tale".

L'analista conclude sottolineando il peso, di cui diveniamo sempre più consapevoli, che ha il Parlamento europeo, anche nella politica nazionale: "In Germania e Francia lo sanno, perché essendo loro i leader dell'Unione Europea, il tema dell'integrazione é discusso e affrontato. Da noi, abbiamo un'opinione pubblica che fa ancora fatica a ragionare in termini europei e questo ha delle conseguenze evidenti non solo nella campagna elettorale – che diventa un sondaggio sul governo su vasta scala – ma anche di peso specifico del Paese sui temi di interesse europeo".

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