Partiamo dal tasto dolente, dolentissimo: i freddi numeri. Alle Elezioni Regionali in Emilia Romagna la lista del Movimento 5 Stelle ha ottenuto il 4,7% con 102.595 preferenze, mentre il candidato alla Presidenza Simone Benini si è fermato al 3,5% con poco più di 80mila voti. Cinque anni fa, sempre alle Regionali, la candidata Gilbertoni aveva preso 167mila voti, mentre la lista M5s ne aveva raccolti poco meno di 160mila (13%). Alle Europee dello scorso anno, i voti per i 5 Stelle erano stati 290mila; alle Politiche del marzo 2018 i grillini avevano raccolto addirittura 700mila preferenze (il 27,5% del totale per la Camera dei deputati). Riassumendo, le dimensioni del tracollo sono epocali: 60mila voti in meno rispetto a cinque anni fa, 600mila (!) in meno rispetto a due anni fa, 190mila in meno rispetto a 7 mesi fa.
Il collasso è evidente anche analizzando i dati della Calabria, dove la lista del Movimento 5 Stelle raccoglie poco meno di 60mila preferenze, il 7,3% del totale, senza ottenere neanche un consigliere regionale. Certo, cinque anni fa la pattuglia grillina aveva raccolto meno di 40mila voti (5%), ma alle Elezioni Europee i voti erano stati 195mila (26,7%), alle Politiche del 2018 ben 406mila (43,4%!). Riassumendo: da dominatore alle politiche, a primo partito alle Europee, fino a restare addirittura fuori dal Consiglio regionale non avendo superato la soglia di sbarramento dell’8%.
L’analisi risulta non meno impietosa se si prova a contestualizzare tali dati, perché la debacle si inserisce in un trend negativo che parte appunto dalle politiche del 2018 e che in generale si manifesta da sempre in occasioni di consultazioni elettorali sul livello locale. Le proporzioni del disastro, inoltre, non possono essere spiegate solo con la “logica del voto utile” o con la poca attenzione mediatica: questioni certo rilevanti, ma che appaiono più come la conseguenza del momento che stanno vivendo i grillini che come la causa della sconfitta elettorale.
Più volte i 5 Stelle sono dati per “spacciati”, per “definitivamente finiti”, per “elettoralmente inconsistenti”, per poi ribaltare pronostici e aspettative. E la prudenza è sempre d’obbligo in presenza di una forza politica che è già stata in grado di ripensare se stessa e adattarsi alla mutevolezza dell’opinione pubblica.
Però.
Ecco, al momento i 5 Stelle sono in una situazione oggettivamente complessa, dalla quale non potranno uscire se non pagando un prezzo enorme. Di certo, pensare che il destino del Movimento 5 Stelle dipenda solo dal sistema elettorale che sarà adottato appare riduttivo, perché è sempre un azzardo modificare il sistema politica per il solo tramite delle modifiche al sistema elettorale. In tanti si sono già bruciati in passato. Per mesi Luigi Di Maio è riuscito a mediare fra le diverse anime dei Cinque Stelle, caricandosi il peso di scelte e compromessi, ma soprattutto la responsabilità di garantire la sopravvivenza di una "irripetibile" pattuglia di parlamentari. Le pressioni interne, i deludenti risultati elettorali dalle politiche in poi e l'assenza di un orizzonte di medio e lungo periodo hanno reso non più differibile il suo passo indietro, ma non hanno risolto le contraddizione determinate da una linea politica debole, appena abbozzata e troppo spesso sostituita dall'istant marketing della comunicazione. Bisogna cambiare. E in fretta.
Ora, a parere di chi scrive, gli scenari sono essenzialmente due e gli stati generali di marzo ci diranno molto in tal senso. Una delle strade porta alla definizione di una solida e ben definita piattaforma politico-programmatica, affidata a una leadership forte, in grado di portare a compimento la trasformazione del M5s in un partito tradizionale, mettendo definitivamente in soffitta le suggestioni movimentiste e scegliendo un chiaro collocamento politico. La prima implicazione di una scelta di questo tipo sarebbe la riaffermazione del peso e del ruolo grillino all’interno del governo guidato da Giuseppe Conte, se non addirittura la ridiscussione dei criteri dell’alleanza con il Partito Democratico e il ritorno allo "splendido isolamento". La fallimentare politica dei due forni e l’apertura alle “alleanze in nome del programma”, infatti, hanno prodotto lo schiacciamento dei 5 Stelle su posizioni lontane dalle sensibilità della base, con il continuo ricorso a compromessi, mediazioni e trattative, che ha finito col cancellare la (presunta) “diversità” grillina e ha provocato l'emorragia di consensi. Se i 5 Stelle sono “come gli altri”, tanto vale votare gli altri, specie se hanno un minimo di possibilità di battere il nemico, per dirla breve. E, infatti, come spiega il Cattaneo, in Emilia Bonaccini ha fatto incetta di voti in uscita dal M5s.
La seconda opzione, quella in cui sperano tanto il PD che lo stesso Conte, è che il Movimento 5 Stelle torni a essere un gigantesco incubatore di idee, proposte e suggestioni: un organismo aperto come quello delle origini, in grado di ripensare il proprio radicamento territoriale e di ritrovare lo spirito grillino (l'uno vale uno, l'assenza della leadership, la politica come servizio, le "cinque stelle" come riferimento ideologico), magari sotto l'egida di una gestione collegiale. Una creatura di questo tipo troverebbe la sua "naturale collocazione" nel campo progressista e il suo "leader naturale" nella figura del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ancora non così forte da poter guidare un processo di trasformazione del quadro politico italiano ma già pronto per rivestire il ruolo di garante di una alleanza che a quel punto diventerebbe di sistema e si inserirebbe alla perfezione nell'ottica di un nuovo bipolarismo con la comunità salviniana.
Tertium non datur, insomma. A meno che la scomparsa non sia davvero un'opzione.