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Opinioni

Che ne sarà del Movimento 5 Stelle

Il caso Pizzarotti non può che accelerare un processo già in atto da tempo, con la trasformazione del Movimento 5 Stelle in un partito “tradizionale”, il consolidamento del gruppo dirigente attuale e l’addio alle utopie del passato. Un processo che mira al definitivo consolidamento del consenso in vista del vero obiettivo: la sfida a Matteo Renzi per la guida del Paese.
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“Adesso ci divertiamo”. Con questa frase Federico Pizzicotti, Sindaco di Parma, aveva risposto alla mail con la quale lo staff di Beppe Grillo lo sospendeva con effetto immediato dal Movimento 5 Stelle. Più che divertente, però, la questione è diventata incredibilmente confusa ed è complicatissimo rintracciare un filo logico nel mare di dichiarazioni, prese di posizione ufficiali, a titolo personale o mal riportate dai media, interpretazioni regolamentari, retroscena, indiscrezioni e via discorrendo. Difficoltà acuita dalle lacune della riflessione "ideologica" in casa 5 Stelle, tra giustizialismo a targhe alterne e vendette trasversali, tra il passo di lato di Grillo e il triplo salto in avanti del suo staff.

A divertirsi, per ora, sono solo i detrattori del M5S, tra fuoriusciti e malpancisti, nonché gli avversari politici, renziani in testa. Il punto è che il caso Pizzarotti è un compendio di tutte le contraddizioni e i limiti del progetto grillino: la democrazia interna, la trasparenza e la linearità della catena di comando, la superficialità della riflessione sui temi etici, la rozzezza dell’approccio giustizialista e qualunquista, la distanza che passa fra l’azione politica e la pratica amministrativa, l’intransigenza nei confronti di chi dissente dalla linea dei vertici.

Il mantra ripetuto dai fedelissimi di Grillo è lo stesso, ormai da qualche anno, e suona più o meno così: se fai parte del Movimento accetti di metterti al servizio di una causa, di un gruppo e non sei in cerca di rendite di posizione o di spazi personali. Il problema, però, è capire qual è adesso la causa, cosa resta dello spirito delle origini e qual è l’orizzonte verso cui tendere.

L’organismo aperto, permeabile e in espansione, delle origini non c’è più e la sindrome da accerchiamento, il vittimismo esasperato e retropensieri di ogni tipo, hanno sostanzialmente trasformato il Movimento in un partito blindato, nel quale il conflitto è eliminato, avversato, dissolto. Ma cosa resta di un organismo sociale quando si elimina il conflitto? Restano integralismi e ortodossia, restano gli yes man e le semplificazioni, restano le certezze e i dogmatismi. Non necessariamente un male, per la forma partito cui evidentemente il M5S assomiglia sempre di più: una formazione verticistica e destrutturata, che fonda il suo consenso sulla critica al sistema e sulla diversità morale, e che deve la sua piattaforma programmatica al lavoro dei parlamentari, che giorno dopo giorno hanno colmato le lacune oggettive della creatura di Grillo e Casaleggio e costruito una rispettabilità della proposta politica 5 Stelle.

Il problema, come scrivemmo in passato, è che l’enorme lavoro che fanno gli attivisti e gli stessi parlamentari viene valorizzato solo in parte e quasi esclusivamente come "vetrina" dell'attività svolta, mentre il mito della Rete come entità a sé stante, in grado di risolvere problemi, determinare soluzioni, rimettere in circolo informazioni e nozioni, ha mostrato tutta la sua fragilità. Pure il tentativo di tornare alle radici, con l’implementazione di Rousseau e la tensione verso pratiche di democrazia diretta (il recall o le votazioni online, per esempio), si è scontrato con l’assenza di trasparenza negli stessi meccanismi di partecipazione, che ha reso monco ogni tipo di esperimento e gettato più di un'ombra sulla democraticità del Movimento e sul reale peso dei suoi principi cardine.

Il paradosso, poi, è che il M5S ha mutuato dai partiti solo alcune delle caratteristiche che ne hanno fatto gli attori privilegiati della politica tradizionali. Non il radicamento su base territoriale (con tutte le problematiche che nascono quando bisogna capire con chi avere a che fare nei Comuni, ad esempio), non la struttura complessa degli organismi dirigenti, non il know how della formazione politica, non la capacità di mobilitazione degli iscritti; ma il centralismo democratico, la sottomissione "delle individualità all'idea", le logiche di appartenenza e, da ultimo prodotto, la personalizzazione dello scontro politico. Con la "beffa finale" della creazione di una fondazione, il buco nero di ogni partito che si rispetti. Non proprio il massimo per una creatura che aveva fatto della critica alla forma partito uno dei suoi punti di forza.

E allora? Che ne sarà del M5S?

A parere di chi scrive, il caso Pizzarotti non potrà far altro che accelerare il processo di trasformazione che è già in atto. Che mira a conservarne la forza d'urto e ad ampliarne il raggio di azione, cercando di consolidare un consenso tendenzialmente aleatorio, sottraendolo dalla "casella dell'antipolitica" e dal "timbro populista". Un progetto che prevede, tra le altre cose, la stabilizzazione della struttura economico – gestionale (fondazione, crowdfunding sistemico, sistema operativo), il consolidamento del gruppo dirigente (il direttorio, i fedelissimi alla Camera e al Senato), una stretta ulteriore sulla comunicazione e, infine, l'individuazione di una figura cardine, spendibile, con la quale lanciare la sfida a Matteo Renzi. Una figura in grado di sovrapporsi al movimento politico, di rappresentarlo anche iconicamente, che non disperda il consenso costruito in questi anni e che si faccia carico della battaglia più complicata di tutte: quella per abbattere il limite del doppio mandato, precondizione per la maturazione definitiva di una classe dirigente in grado di contendere al PD la guida del Paese e radicarsi sul territorio.

E se leggete fra le righe del caso Pizzarotti, capirete che del livello territoriale, al momento, frega davvero poco in casa 5 Stelle. Che conta Roma, certo, ma più a livello simbolico che altro (Roma è ingovernabile, non ci sono soldi e non ci sono le condizioni per far bene, lo sanno tutti). Che conta invece segnare il territorio e pazienza se si perde anche Parma. La vera guerra non è a giugno e nemmeno a ottobre. Ma nel 2018.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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