Lunedì 22 gennaio la Corte Costituzionale ha emesso una decisione sul Jobs act, sottoposto negli ultimi anni, in più occasioni, a dubbi di legittimità costituzionale. In quest’ultimo caso, la Consulta ha mantenuto indenne la norma renziana, dichiarando non fondate le questioni sollevate dalla Corte d’Appello di Napoli riguardo ai licenziamenti collettivi. Insieme alla sentenza, come da prassi, è stato pubblicato sul sito istituzionale anche un comunicato stampa, ripreso dai media: "Non illegittimi licenziamenti collettivi Jobs Act". Per comprendere quel che sostiene la Corte Costituzionale, però, non bastano i lanci di agenzia: occorre anzi una prospettiva storica.
La delega al governo scritta dal governo: come nacque il Jobs act
Il cosiddetto Jobs act è la riforma del lavoro ideata dal governo Renzi, varata tra il 2014 e il 2015: nell’autunno 2014 viene approvata la legge delega in materia di ammortizzatori sociali, politiche attive e riordino della disciplina dei rapporti di lavoro, e nei primi mesi del 2015 vengono emanati i decreti attuativi riferiti a quella delega.
L’iter parlamentare appare tra l’altro come un’anomalia logica prima ancora che istituzionale: si procede infatti tramite legge delega (ossia un testo attraverso cui il Parlamento delega al governo la funzione legislativa su un determinato tema, specificando princìpi e criteri direttivi), ma il disegno di legge in questione era già di iniziativa governativa. Si è insomma di fronte al paradosso di un governo che scrive una delega a sé stesso, con il presidente del Consiglio di allora, Matteo Renzi, che prospetta di porre anche la questione di fiducia (come in effetti poi avvenuto in Senato), forzando ulteriormente il dibattito parlamentare.
Tra i decreti attuativi varati dal governo Renzi l’elemento centrale e qualificante della riforma è il decreto legislativo 23 del 2015, che introduce il nuovo contratto a tutele crescenti, applicato automaticamente a tutti i lavoratori subordinati assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015. A dispetto del nome, non c’è nessuna riforma della tipologia contrattuale: l’unica differenza rispetto al passato è il regime sanzionatorio in caso di licenziamento illegittimo, con il rimedio monetario come soluzione principale e la reintegrazione sul posto di lavoro riservata ai soli licenziamenti nulli o discriminatori. Nella sua versione originaria, che, come si vedrà, è stata dichiarata incostituzionale e smontata dalla Consulta tra il 2018 e il 2020, l’indennità di risarcimento era calcolata automaticamente e legata all’anzianità di servizio: al lavoratore ingiustamente licenziato, in caso di vittoria di lite, sarebbe spettata un’indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, entro minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità (poi aumentate, dal decreto Dignità, tra sei e trentasei). Di fatto, insomma, l’istituzione del nuovo contratto era solo un modo per disapplicare, indirettamente e progressivamente, le tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Da Fornero a Renzi: il progressivo abbandono della tutela reale
L’ultima sentenza della Corte Costituzionale riepiloga l’evoluzione della disciplina sui licenziamenti, partendo proprio dallo Statuto dei lavoratori. In origine, l’articolo 18 applicava un’unica sanzione: la reintegrazione sul posto di lavoro del lavoratore ingiustamente licenziato, nei casi previsti dalla legge 604/1966, ossia per i licenziamenti individuali. La reintegrazione si è allargata poi anche ai licenziamenti collettivi con la legge 223/1991.
Più di recente, però, l’ampiezza della tutela reintegratoria (che, spiega la Consulta, "pareva una conquista irretrattabile di tutela nei confronti dei licenziamenti illegittimi") è stata messa in discussione fino ad arrivare alla legge Fornero, che ha frantumato le modalità di tutela distinguendo le sanzioni in base al tipo di illegittimità del licenziamento.
Non è il caso di soffermarsi sulla (complessa e complicata) disciplina del nuovo articolo 18, basti sapere che la riduzione del ricorso alla reintegrazione non è, in sé e per sé, incostituzionale: come più volte sostenuto dalla Consulta, infatti, il legislatore conserva una discrezionalità politica, insindacabile dai giudici. In altri termini, la politica può legittimamente decidere di ridurre le tutele sociali e graduare le sanzioni, purché questi interventi rispettino almeno i canoni costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza.
Le censure della Corte Costituzionale alla legge Fornero e al Jobs act
Né la riforma dell’articolo 18 di Elsa Fornero, né il contratto a tutele crescenti di Matteo Renzi, nelle loro forme originali, erano comunque privi di vizi di costituzionalità. La legge Fornero è stata destinataria di ben due censure della Consulta, con le sentenze 59/2021 e 125/2022: in entrambi i casi la Corte ha allargato il ricorso alla reintegrazione, nei casi di licenziamenti economici, eliminando le ambiguità del testo.
Il Jobs act o, meglio, il decreto legislativo 23/2015 è stato destinatario a sua volta di diverse condanne, censure e correzioni, tanto politiche quanto giudiziarie. Sul piano politico è arrivata, nel 2020, su reclamo collettivo della Cgil, la pronuncia del Comitato europeo dei diritti sociali di Strasburgo, secondo cui, con la riforma del lavoro renziana, l'Italia viola il diritto di lavoratrici e lavoratori di ricevere un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione in caso di licenziamento illegittimo. Sul piano giuridico e giudiziario, le censure della Corte Costituzionale sono state già tre.
La prima, probabilmente la più importante, è la sentenza 194/2018, a cui è seguita la sentenza 150/2020: la Consulta ha dichiarato incostituzionale il meccanismo automatico di calcolo, sostenendo "l’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente". Si torna quindi a una valutazione personalizzata del giudice sul caso concreto del lavoratore ricorrente, pur entro i limiti minimi e massimi previsti.
Più di recente, la Corte Costituzionale ha richiamato il legislatore al suo ruolo: chiamata a esprimersi su un’eccezione di legittimità costituzionale relativa alla disciplina sui licenziamenti nelle piccole imprese, la Consulta ha ritenuto inammissibile la questione, non tanto perché non riconoscesse un vizio, ma perché la normativa nel suo complesso risulta ormai frastagliata e inadeguata a garantire il diritto dei lavoratori in un contesto socio-economico come l’attuale. Per questa ragione, un intervento della Corte non avrebbe risolto la questione e i giudici hanno dichiarato la necessità di una riforma complessiva della materia, avvertendo la politica che "un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte".
Niente da fare sui licenziamenti collettivi: la Consulta respinge la questione
Diverso destino sembrano avere i ricorsi della Corte d’Appello di Napoli sulla disciplina delineata dal Jobs act per i licenziamenti collettivi.
I giudici partenopei hanno sollevato questioni costituzionali relative all'eccesso di delega, alla violazione dell'articolo 24 della Carta Sociale Europea, all'inadeguatezza della sanzione monetaria nella tutela del diritto al lavoro e alla differenza di trattamento tra lavoratori che si trovano nella medesima situazione giuridica.
L'eccesso di delega riguardava la carenza di potere del governo nel riformare i licenziamenti collettivi, che non sarebbero compresi nella nozione di "licenziamenti economici" prevista dalla legge delega. Sebbene, come riconosce anche la Consulta, la locuzione usata nella norma renziana sia atecnica, e manchi una definizione giuridica dell'espressione, è piuttosto chiaro, rispetto alla logica generale della riforma, che tra i licenziamenti economici siano compresi quelli non inerenti alla persona del lavoratore, tra cui quindi anche gli esuberi collettivi. Viene quindi esclusa questa doglianza, così come anche la rilevanza della violazione dell'articolo 24 della Carta Sociale Europea, che, per quanto fonte autorevole e citata anche nelle precedenti sentenze della Corte Costituzionale, non è vincolante per i giudici nazionali.
Se questo esito era piuttosto prevedibile, più discutibile è invece la conclusione della Consulta sulla differenza di trattamento tra i lavoratori coinvolti da una stessa procedura di licenziamento collettivo, viziata dalla violazione dei criteri di scelta. La tutela per i lavoratori assunti negli ultimi nove anni è infatti ridotta rispetto a quella prevista per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Mentre l’articolo 18 St. lav., come modificato dalla legge Fornero, prevede la reintegrazione in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, il d.lgs. 23/2015 prevede invece la semplice indennità monetaria. In altri termini, i lavoratori, sottoposti alla medesima procedura di licenziamento collettivo dei colleghi, danneggiati dalla stessa violazione dei criteri di scelta, ricevono un trattamento diverso a seconda della data della loro assunzione.
Dichiarando non fondata la questione sollevata dai giudici partenopei, la Consulta ritiene che la differenza di trattamento su base temporale rientri nella discrezionalità del legislatore, così come la scelta di una tutela meramente monetaria, e quindi meno dissuasiva nei confronti dei datori di lavoro più spregiudicati (o più ricchi). Tanto più, sostiene la Corte, che l’obiettivo della riforma del lavoro renziana era "incentivare l’occupazione, soprattutto giovanile, e la fuoriuscita dal precariato a mezzo della creazione di una fattispecie di lavoro subordinato a tempo indeterminato maggiormente ‘attrattiva’ per i datori di lavoro". Ma è davvero così?
Ma davvero il Jobs act ha rispettato la delega in materia di semplificazione e stimolo all’occupazione?
Pur non soffermandosi sulla questione, la sentenza della Corte Costituzionale cita proprio un punto spesso trascurato nell’analisi del rapporto tra criteri direttivi della legge delega e misure previste dai decreti attuativi varati poi dal governo Renzi.
Ovviamente non si può pretendere troppo da una qualunque riforma, ma due essenziali finalità citate nella legge 183/2014, delega alla base del Jobs act, erano proprio la semplificazione della disciplina giuslavoristica e lo stimolo all’occupazione.
Quanto a quest’ultima, manca, tanto nella legge delega, quanto nei decreti attuativi, la spiegazione sul rapporto tra modifica della disciplina sui licenziamenti (o, meglio, tra riduzione delle tutele in caso di licenziamento illecito) e aumento dell’occupazione. Tanto più che l'introduzione del contratto a tutele crescenti, con la conseguente ulteriore compressione della tutela reintegratoria, si è accompagnata a misure di decontribuzione per le nuove assunzioni, che distorcono l'analisi dei dati: insomma, l'eventuale aumento dell'occupazione deriva dal fatto che lo Stato ha pagato i contributi al posto delle imprese o dalla previsione di sanzioni minime in caso di licenziamenti ingiustificati?
Sulla semplificazione, invece, basta sfogliare l'ultima sentenza della Corte Costituzionale per notare quanto sia complesso lo scenario delineato dalla riforma renziana, che non solo non ha risolto le ambiguità esistenti, ma ha creato nuove complicazioni. L'attuale disciplina sulle sanzioni in caso di licenziamento ingiustificato è infatti tutt'altro che semplificata: convivono negli stessi tribunali, così come nelle sedi di conciliazione, differenti procedure e diverse norme di riferimento, a seconda della data di assunzione del lavoratore ingiustamente licenziato.
L'unica certezza è l'instabilità, e questo è in realtà anche un problema per le imprese: non essendoci più una tutela reale, ossia una prospettiva di reintegrazione sul posto di lavoro in caso di licenziamento illecito, il lavoratore non è in grado di esercitare i suoi diritti al meglio durante il rapporto professionale, per il timore di ritorsioni che lo porterebbero a perdere l'impiego. Per questo, ad esempio, la prescrizione quinquennale per i crediti da lavoro, ossia il tempo dopo il quale il lavoratore non può più pretendere quanto gli spetta, non decorre più dal momento in cui matura il credito, ma dal termine del rapporto di lavoro, siccome, come spiegano ormai numerosissime sentenze di Cassazione, il contratto di lavoro a tempo indeterminato non è più una forma stabile di impiego. Se insomma, da un lato, anche grazie al Jobs act, le imprese più spregiudicate possono espellere dall'azienda i lavoratori scomodi, violando i criteri di scelta al prezzo, al più, di un'indennità monetaria, altri datori di lavoro, magari più coscienziosi, rischiano di dover rispondere di crediti risalenti a un passato anche remoto perché la prescrizione decorre dal termine del rapporto di lavoro.