Tra i vari temi affrontati nella conferenza stampa di fine anno, Giorgia Meloni ha illustrato anche una delle novità della manovra, l’estensione della cosiddetta flat tax: che cosa risponde, le è stato chiesto, a chi sostiene che con questa misura i lavoratori autonomi pagheranno meno tasse rispetto ai dipendenti? La Presidente del Consiglio esordisce con una dichiarazione netta: "È una falsità", risponde, "che approfondendo un pochino non sarebbe difficile, e non è difficile, smontare". Peccato che, se non del tutto false, le sue dichiarazioni successive sono senz’altro smontabili. Proviamo a vedere perché.
La tassa piatta per gli autonomi non è la flat tax del programma di destra
La flat tax per gli autonomi è una delle novità della manovra appena approvata. Già il riferimento alla tassa piatta, però, è una scelta propagandistica. Il richiamo è infatti a una promessa del programma della destra, ma la flat tax della manovra è soltanto l'estensione di un regime fiscale già esistente, cioè il regime forfettario, un sistema semplificato pensato per operatori economici di ridotte dimensioni. La manovra si limita ad aumentare la soglia entro cui si può optare per questo regime, che conviene alle persone fisiche che svolgono un’attività individuale, le partite iva, appunto perché semplifica molti adempimenti contabili e prevede un’aliquota agevolata al 15%.
La tassazione per i lavoratori dipendenti è invece più alta: il primo scaglione Irpef, per un reddito imponibile fino a 15mila euro, ha una aliquota al 23%. Per un lavoratore dipendente con un reddito superiore a 50mila euro l’aliquota è al 43%. Poi, certo, a fronte di una tassazione simile, ci sono delle detrazioni.
La confusione di Meloni sul sistema delle detrazioni
Proprio le detrazioni fiscali sono una delle questioni che Meloni cita per mostrare come non ci sia discriminazione tra autonomi e dipendenti nella tassazione prevista (anche) dalla nuova manovra. Perfino con la flat tax, spiega Meloni, il lavoratore autonomo che aderisce al regime forfettario paga di più o incassa di meno, anche perché "non può detrarre nulla". Mentre infatti per i lavoratori autonomi con regime ordinario sono previste detrazioni, per le partite iva in regime forfettario no. Ma la ragione è proprio nel regime semplificato, forfettario per l’appunto: ci sono meno adempimenti da rispettare e c’è un’aliquota agevolata al 15%. Se si pensa che un dipendente, con lo stesso reddito imponibile, paga tra il 23% e il 43% di Irpef, si capisce per quale ragione al lavoratore subordinato (così come all’autonomo in regime ordinario) siano concesse delle detrazioni, mentre alla partita iva che aderisce al regime forfettario no.
Contributi e tributi non sono sinonimi
Meloni cita anche il tema dei contributi e quello del Tfr, entrambe forme di accantonamento che non hanno troppo a che fare con il sistema fiscale.
Sulla prima questione, Meloni prima parla dei dipendenti, correggendosi perché si riferisce agli autonomi, poi parla di “lavoratore”, quando intende invece “datore di lavoro”: la presidente mostra insomma una certa confusione lessicale che distoglie da una più profonda confusione concettuale. Contributi e tributi, infatti, non sono la stessa cosa. Versare i contributi è come pagare un premio assicurativo che finanzia la previdenza sociale, ossia pensioni, sussidi, indennità per le persone che, temporaneamente o permanentemente, non possono lavorare. Per quanto il sistema non sia così semplice, possiamo dire che versare i contributi significa metterli a disposizione della collettività, ma vedendoli comunque accreditati in un proprio personale conto assicurativo. I tributi, invece, sono somme che paghiamo per finanziare servizi e vengono prelevati sulla base della capacità contributiva di ognuno: ciascuno contribuisce in misura della propria ricchezza, mettendone una parte in comune per garantire servizi a tutti.
Perché non ha senso parlare del Tfr in ambito fiscale
Allo stesso modo, citare il Tfr come una delle differenze tributarie tra autonomi e dipendenti significa ignorare la natura e la funzione del Tfr, che non riguarda tasse e regimi fiscali. Il trattamento di fine rapporto è una forma di retribuzione differita, cioè è una somma che viene data al dipendente quando smette di lavorare per un’impresa e che deriva dagli accantonamenti dello stipendio del lavoratore stesso. Si tratta, cioè, di soldi che sono del lavoratore e che, invece di essergli consegnati insieme allo stipendio, costituiscono un fondo, a cui avrà accesso al termine del rapporto di lavoro. Quel capitale, costituito di denaro del lavoratore, è a disposizione dell’impresa in cui il lavoratore è impiegato o della fiscalità generale, a seconda delle dimensioni dell’impresa e della scelta del lavoratore stesso. Senza dilungarsi sulle questioni tecniche e fermandoci alla logica, dovremmo allora dire che il Tfr è casomai un fondo che il dipendente mette a disposizione degli altri, al contrario del lavoratore autonomo, a cui comunque nessuno vieta di accantonare una quota dei propri introiti.
Illegalità e realtà: la denuncia dei sindacati e la risposta di Meloni
Una volta evidenziate queste differenze tra autonomi e dipendenti, Meloni riporta una delle critiche che le sarebbero state mosse dai sindacati: rendendo più conveniente la tassazione per i lavoratori autonomi, infatti, le imprese più ciniche sarebbero indotte ad assumere false partite iva. La risposta di Meloni è semplice: “Segnalo che è illegale”.
Duole segnalare alla presidente che la realtà è piena di atti illegali che sono comunque compiuti: stragi, omicidi, stupri, così come truffe, rapine e furti, sono tanto atti vietati dalla legge quanto esistenti nella società. Limitarsi a constatare l’illegalità di un fatto per non affrontarne la diffusione è ingenuo od offensivo, a seconda che Meloni ci creda o che sia in malafede.
Il problema delle false partite iva è un vizio endemico del nostro mercato del lavoro: basta entrare in un ospedale (cioè, in un’azienda socio-sanitaria) per vedere infermieri assunti affiancati da infermieri a partita iva, che svolgono lo stesso identico mestiere, con una qualificazione contrattuale diversa; basta sfogliare le sentenze di una qualunque sezione lavoro di un qualunque tribunale per notare cause su cause di dipendenti nei fatti, ma autonomi nel contratto, che per ottenere quanto spetta loro, in termini di tutele (e talvolta anche di stipendio), devono affrontare un processo. E chissà quanti non sanno, non vogliono o non possono intraprendere la via giudiziaria per vedere riconosciuti i propri diritti: perché, purtroppo, nella società in cui viviamo, e nel mercato del lavoro in cui siamo immersi, non basta che la presidente del Consiglio segnali che qualcosa è illegale perché quella qual cosa sparisca. Specie se, nel portare avanti le sue politiche e nel comunicare coi cittadini, replica ancora una volta la contrapposizione che ci ha portati a questo punto della storia.
Più di vent’anni di dibattito e meno tutele per tutti quanti
Il dualismo tra autonomi e subordinati è infatti uno dei temi cardine del diritto del lavoro, dal momento che il nostro sistema giuridico assegna tutele principalmente ai dipendenti, riconoscendone la debolezza socio-economica nei confronti dell’imprenditore. Queste tutele, in origine, non servivano agli autonomi, cioè professionisti (artisti, architetti, avvocati…) già in grado di riequilibrare il proprio rapporto con i committenti, negoziando le migliori condizioni di contratto.
Il mercato del lavoro però è cambiato, i professionisti non sono più solo quelli che hanno strumenti commerciali per negoziare il proprio corrispettivo, ma ci sono anche lavoratori autonomi che svolgono impieghi più o meno umili, senza il potere contrattuale del professionista e senza le tutele del dipendente.
Questi rischi sui diritti erano già stati evidenziati da un grande studioso come Massimo D’Antona nel 1998:
Probabilmente, le nuove insidie alla "dignita e sicurezza" del lavoratore si celano oggi nell’illusoria autonomia, e nel reale isolamento solipsistico, dei tanti lavoratori "indipendenti" (o come si dice, "le partite Iva") che, grazie ai nuovi modelli di organizzazione del lavoro, e alla maggiore libertà di ricorrere a forme contrattuali flessibili, l’impresa postfordista controlla meglio di prima con la sola accortezza di tenere il guinzaglio lungo.
Già più di vent’anni fa si discuteva sulla necessità di riconoscere tutele ai lavoratori autonomi e il dibattito giuridico è stato molto acceso e propositivo. La comunicazione politica, e le scelte normative, sono state invece meno attente ai diritti delle persone, dei lavoratori, e si sono basate soprattutto sulla contrapposizione tra subordinati e autonomi, come se le tutele degli uni derivassero da un furto a danno degli altri. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: le tutele contro il licenziamento ingiustificato sono state drasticamente ridotte, ad esempio, al punto da richiedere in più occasioni l'intervento della Corte Costituzionale, mentre il benessere degli autonomi non è aumentato. E per spiegare una misura fiscale in favore di lavoratori autonomi con un reddito fino a 85mila euro, Giorgia Meloni si è servita ancora una volta di questa retorica: ha parlato di discriminazione, estremizzando le critiche in accuse, per poi ribadire la perenne contrapposizione, la fallace dicotomia tra subordinati e autonomi, condendola di pressappochismo e confusione, secondo una strategia che non ha mai portato più diritti a qualcuno, ma meno tutele per tutti.