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C’eravamo tanto amati: la parabola del rapporto tra Conte e Di Maio

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha voluto a Palazzo Chigi l’avvocato di Volturara Appula Giuseppe Conte. E lo ha imposto anche al Pd. Ma dalla liberazione di Silvia Romano la situazione è precipitata. Fino alla scissione.
A cura di Stefano Iannaccone
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La scissione è arrivata, Luigi Di Maio ha messo in moto la macchina organizzativa dei gruppi autonomi. Sancendo la fuoriuscita dal Movimento 5 Stelle dopo la rottura con Giuseppe Conte. In quattro anni il rapporto, che era iniziato con un idillio, con l'intermezzo della definizione dimaiana di “perla rara” si è chiuso male. Molto male. Ma uno sguardo rivolto al passato aiuta a comprendere come si sia arrivati a questo punto, perché l’allontanamento è stato graduale. Passando da un polo, le dichiarazioni al miele, all’altro, l’impossibilità di stare nello stesso soggetto. Serve quindi un passo indietro per ricostruire la vicenda. Nel maggio 2018, dopo la vittoria alle elezioni, il Movimento 5 Stelle aveva puntato sul nome di Conte, grazie proprio a Di Maio e su suggerimento di Alfonso Bonafede. In realtà il primo contatto risale alla presentazione della squadra di governo del M5S, l’evento organizzato ad hoc per illustrare chi sarebbero stati i ministri pentastellati, in caso di vittoria.

Era l’1 marzo e per la prima volta Di Maio e Conte fecero la loro apparizione in pubblico, uno al fianco dell’altro. L’avvocato, all’epoca sconosciuto ai più, era stato indicato come candidato ministro alla Pubblica amministrazione, deburocratizzazione e meritocrazia. E conquistò la platea citando Stefano Rodotà e ammettendo di non aver votato il Movimento 5 Stelle. Qualche mese dopo ci fu l’inatteso upgrade: Conte bruciò la candidatura dell’economista Giulio Sapelli, inizialmente indicato come possibile presidente del Consiglio prescelto dall’alleanza M5S-Lega. E proprio per volontà di Di Maio. Da allora è iniziata la difesa pervicace dell’allora capo politico, che aveva garantito la bontà della scelta. Dopo le tensioni, per i paletti fissati dal Quirinale, Conte si è insediato a Palazzo Chigi con un profilo molto basso, lasciando spazio ai due vice, Di Maio e Salvini, che gareggiavano in termini di visibilità. E quando il leader leghista ha iniziato l’operazione di sganciamento dall’esecutivo gialloverde, il capo politico pentastellato non ha mai esitato a difendere l’avvocato del popolo. Era quasi un intoccabile.

A pochi giorni dalla crisi di quel governo, l’1 agosto 2019, Di Maio pubblicò un post con una foto insieme a Conte, Fraccaro e Bonafede, invitando ad andare avanti nell’azione del governo. E ancora: a poche ora dal passaggio decisivo al Senato sulla tenuta della maggioranza, il leader del Movimento scrisse una lettera pubblica, rivolgendosi a “Giuseppe”, dandogli la definizione di “perla rara” da non perdere. E, in quell’occasione, rivendicò la scelta: “Sei una delle scelte di cui vado più fiero nella mia vita”. Il governo cadde e si avviarono le trattative con il Pd e il M5S lanciò il diktat: o Conte premier o niente accordo. Una rigidità che fece piegare il segretario Nicola Zingaretti, compreso Matteo Renzi all’epoca ancora tra i dem. Ma un comportamento temerario che fece rischiare a Di Maio la fine anticipata della legislatura. Ed è stato quello l’ultimo atto di intesa solida.

La fine dell'estate 2019 ha di fatto segnato l’avvio delle incrinature del rapporto personale e politico. Il primo intoppo è arrivato durante la formazione dell’esecutivo con la nomina, voluta dall’allora leader pentastellato, di Riccardo Fraccaro nel ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, andando incontro alle intenzioni di Conte che avrebbe preferito tenersi le mani libere. “Definirmi dei 5 Stelle mi sembra formula inappropriata”, diceva all’epoca Conte. E la sua volontà di maggiore autonomia ha gradualmente deteriorato il quadro. Un momento di grande fibrillazione, infatti, è messo agli atti nell’ottobre di quell’anno, durante i primi confronti sulla Legge di Bilancio. I 5 Stelle volevano, tra le varie cose, il carcere per gli evasori, i dem si opposero. Conte non si schierò con Di Maio, anzi lo bacchettò dicendo di mettere fuori chi “non fa squadra”. La replica fu gelida: “Certi toni ci addolorano”.

Altra fibrillazione si registrò a dicembre, quando si parlava di Mes. Il ministro degli Esteri non apprezzò la linea moderata del presidente del Consiglio, troppo vicina a quella di Roberto Gualtieri. E quindi del Pd. La spaccatura, emersa giorno dopo giorno, si è palesata del tutto nel giorno della liberazione di Silvia Romano, il 9 maggio. Conte diede l’annuncio su Twitter, bruciando tutto. Inclusa la Farnesina di Di Maio, che non la prese benissimo. Per giorni si vociferava della richiesta di chiarimenti, Palazzo Chigi smentì tutto. Da quel momento la situazione è irrimediabilmente precipitata, nonostante la pandemia avesse frenato i malumori. Così tra un retroscena e l’altro, magari seguito da smentite, si è stratificata la distanza. Ma con un colpo di scena: a giugno 2021, Beppe Grillo si schierò contro la leadership di Conte. Erano i giorni in cui l’ex comico lo etichettava come un profilo “inadeguato”.

Non possiamo lasciare – diceva il fondatore del M5S – che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco”. In quel caso Di Maio indossò i panni del mediatore per arrivare a un compromesso, riuscendo a centrare il risultato in tandem con il presidente della Camera, Roberto Fico. Aveva l’occasione di sbarazzarsi dell’avvocato, ma lo salvò. Consegnandogli la guida del Movimento. Chissà che oggi non sia pentito, visto che nella controversa storia tra i due, non è servito neppure questo passaggio. Di mezzo c’è stata pure la linea da assumere rispetto al governo Draghi, che vedeva il ministro degli Esteri allineato a Palazzo Chigi, e l’ex premier che non ha mai legato con il suo successore.

L’apice della tensione è stato raggiunto così a gennaio, quando in ballo c’era l’elezione del Capo dello Stato. Di Maio avrebbe voluto Draghi, nome indigesto a Conte, che aveva perciò tirato fuori dal cilindro l’accordo con Salvini sul nome di Elisabetta Belloni, capo del Dis. La dichiarazione del numero uno della Farnesina bruciò la candidatura, spalancando la porta alla rielezione di Sergio Mattarella. Con un affondo al leader: “È stato un fallimento, serve una riflessione”. Per Conte fu una pugnalata, e chiese “un chiarimento” al suo avversario interno. L’escalation stava conducendo alla scissione, fermata poi da un’escalation ben più grave: quella in Ucraina. La tregua è durata il giusto necessario: sulla collocazione internazionale è maturata la rottura definitiva. Di un rapporto che si era trasformato in convivenza forzata.

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