Centri migranti in Albania, ripartono i trasferimenti dall’Italia: perché il piano del governo resta incerto

Dovrebbero partire entro la giornata due navi con a bordo una quarantina di migranti, dirette dalla Puglia al porto albanese di Shengjin. Si tratta del primo trasferimento concreto previsto dall'ormai noto protocollo tra Italia e Albania, firmato mesi fa e ora rilanciato con un decreto del governo di Giorgia Meloni. Le persone migranti verranno ora accolte nella struttura di Gjader, riconvertita in Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) dopo un lungo stallo legale. Il centro, oggi con una capienza di 48 posti ma destinato ad ampliarsi fino a 140, ospiterà persone che in Italia hanno già ricevuto un decreto di espulsione. Un secondo centro, quello a Shengjin, dovrebbe invece servire come hotspot per l'identificazione, ma la sua funzione resta per ora ancora indefinita.
Cpr in Albania, mesi di stop e sentenze contrarie: perché il progetto era fermo
Il piano di esternalizzare parte della gestione dei migranti in Albania era stato annunciato con grande enfasi già lo scorso autunno, ma fino ad oggi non aveva mai visto la luce: a bloccarlo, infatti, erano state tre diverse decisioni dei giudici italiani, che avevano sospeso il trattenimento dei migranti, rimandando la questione alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Per superare questi ostacoli, il Consiglio dei ministri ha approvato a fine marzo un nuovo decreto-legge che modifica formalmente la destinazione delle strutture albanesi, facendole rientrare, sostanzialmente, nei confini della detenzione amministrativa.
Le rivolte nei Cpr italiani e il rinvio dell'operazione
Il trasferimento era previsto inizialmente per oggi, 10 aprile, ma due rivolte scoppiate nel Cpr di Brindisi hanno fatto slittare i piani. A scatenare le proteste, secondo indiscrezioni, sarebbe stata proprio la selezione delle persone da trasferire: circa 40 persone individuate nei vari centri italiani, scelte tra coloro ritenuti "socialmente pericolosi", ma senza particolari fragilità sanitarie o psicologiche. Cioè, sostanzialmente, non considerate "vulnerabili". Il ministero dell'Interno aveva previsto il trasferimento entro sette-dieci giorni dalla fine di marzo, ma la complessità del processo ha rallentato tutto e l'operazione si è così rivelata però più complicata del previsto, mettendo in discussione la solidità dell'intero meccanismo.
Le denunce delle associazioni e i dubbi della politica
Mentre il governo cerca di far partire l'operazione, le critiche non mancano. ActionAid ha chiesto l'abbandono del progetto, definendo ingiustificato il ricorso alla decretazione d'urgenza e criticando il sistema dei Cpr, in cui nel 2023 solo il 10% delle persone è stato effettivamente rimpatriato. Anche la deputata del Pd Rachele Scarpa ha sollevato numerose perplessità dopo una visita al centro di Gjader: secondo quanto riferito, la cooperativa che lo gestisce non avrebbe ancora certezze operative.
Restano poco chiare poi le lingue parlate dai migranti che saranno trasferiti, rendendo complessa l'organizzazione della mediazione linguistica. Non solo, non esistono ancora protocolli sanitari in caso di emergenza né linee guida per gestire situazioni di vulnerabilità psichica o tossicodipendenza. Il rischio, sostanzialmente, come sottolineano gli attivisti, è che diritti fondamentali restino disattesi.
Le incognite del modello Albania
Al momento dell'arrivo a Gjader, tutte le persone migranti saranno sottoposte a colloqui individuali, visite mediche e verrà loro illustrata la Carta dei diritti. Non è però garantita la presenza di mediatori adeguati per tutti. Saranno disponibili pochissimi telefoni per comunicare con i familiari, con costi internazionali elevati: al momento a carico dell'ente gestore, ma destinati a ricadere sui fondi pubblici con il nuovo contratto. Il trattenimento può durare fino a 18 mesi, ma, poiché i rimpatri dovranno comunque partire dall'Italia, le persone dovranno poi essere riportate in patria prima dell'espulsione. Insomma, una contraddizione che rende difficile parlare, come, invece, sostiene il ministro Piantedosi, di "costi invariati.
Le associazioni, poi, mettono in guardia: se già i Cpr italiani sono spesso criticati per la mancanza di tutele, l'esternalizzazione in Albania rischia di peggiorare ulteriormente la situazione, rendendo più difficile il controllo parlamentare e quindi, l'accesso ai diritti fondamentali.