Ceccanti boccia la riforma: “Premier eletto dai cittadini ma non ha poteri, c’è asimmetria”
La bozza della riforma costituzionale, che punta a introdurre l'elezione diretta del presidente del Consiglio, "a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni" non convince il professor Stefano Ceccanti, costituzionalista all'Università di Roma ed ex parlamentare dem.
Secondo il testo circolato nelle ultime ore, composto da 5 articoli, che sarebbe stato condiviso dalla maggioranza nella riunione di ieri, verrebbero eliminati i senatori a vita (modifica articolo 59 della Costituzione), e si inciderebbe sugli articoli 88, 92 e 94 della Costituzione: viene meno la possibilità di sciogliere una sola Camera (al momento al primo comma dell'articolo 88 si legge invece ‘il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse'); inoltre si fa riferimento a un premio di maggioranza, assegnato su base nazionale, del 55 per cento dei seggi delle Camere garantito ai candidati e alle liste collegati al presidente del Consiglio; all'articolo 4 poi si prospetta un doppio passaggio parlamentare di fiducia e in caso di esito negativo il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere e si torna alle urne; e ancora, in caso di cessazione dalla carica del presidente del Consiglio neo-eletto, in alternativa allo scioglimento, il Presidente della Repubblica può conferire l'incarico di formare il governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare, eletto in collegamento al primo ministro, che si presenterebbe alle Camere ma solo per proseguire l'indirizzo politico e il programma precedente; l'ultimo articolo invece specifica che la legge costituzionale entra in vigore con le prossime elezioni. Queste le novità del nuovo testo.
Il primo problema secondo il professor Ceccanti è che in questo impianto mancano una serie di poteri che si trovano nei premierati elettivi: "C'è elezione diretta del presidente del Consiglio, ma poi non ci sono i poteri dei premier che non sono eletti direttamente. C'è uno scarto tra la legittimazione popolare diretta e i poteri. Nelle altre democrazie parlamentari il rapporto di fiducia è con una sola Camera, non con due. E questo punto nella riforma del governo Meloni non viene affrontato. Poi il rapporto di fiducia con la Camera negli altri Paesi è del presidente del Consiglio da solo, non dell'intero governo. Qui invece siamo davanti a un meccanismo iperpasticciato: c'è un presidente eletto direttamente, che deve poi avere la fiducia del Parlamento con tutta la lista dei ministri. Ma i nostri sindaci e i nostri presidenti di Regione, che sono appunto eletti direttamente dai cittadini, non vanno poi a chiedere la fiducia, entrano direttamente in funzione. Secondo questa bozza invece il premier eletto deve chiedere la fiducia per sé e per tutto il governo".
"Negli altri Paesi poi, il primo ministro può proporre al Capo dello Stato la nomina di un ministro, ma successivamente può anche cacciarlo". Secondo la bozza del governo Meloni, invece, il primo ministro non ha il potere di rimuovere i suoi ministri. "Qui si cambia la base di legittimazione del presidente del Consiglio, dandogli uno strapotere perché eletto direttamente dai cittadini. Tutto questo è pericoloso, perché il primo ministro, che ha avuto una grande legittimazione popolare, potrebbe poi prendersi i poteri che non ha, creando conflitti istituzionali", ha spiegato il professor Ceccanti. "C'è un'asimmetria: elezione diretta, ma senza poteri".
L'eliminazione dei senatori a vita, a parere di Ceccanti, è una questione assolutamente secondaria: "Nella bozza non hanno messo moltissime cose che servirebbero, e si concentrano su un aspetto marginale. Si possono anche togliere i senatori a vita, ma non capisco allora perché dicevano di voler fare una riforma chirurgica".
Perché il premio di maggioranza rischia di creare squilibrio
Secondo Ceccanti è sbagliata la scelta di costituzionalizzare un premio del 55 per cento dei seggi, senza però contemporaneamente costituzionalizzare anche una soglia minima per la sua assegnazione, perché c'è un rischio di squilibrio: "Può anche essere una buona legge elettorale, ma siamo sicuri che bisogna costituzionalizzare una precisa legge elettorale? A quel punto per cambiare la legge elettorale bisognerà cambiare la Costituzione. Nello specifico c'è un problema, perché nel testo c'è scritto che la legge elettorale deve assicurare il 55 per cento dei seggi a chi vince. Noi però veniamo da una giurisprudenza della Corte Costituzionale che indica proprio la necessità che si specifichi una soglia minima in voti stabilita dalla legge, che invece nella bozza non c'è, e tutti i dettagli sono affidati a una legge ordinaria. Rischiamo che se un candidato prende il 20 per cento dei voti in un turno unico ottiene poi il 55 per cento".
Per Ceccanti se per i sindaci occorre il cinquanta per cento dei voti più uno per avere il premio, per il Parlamento nazionale, che a differenza dei consigli comunali decide sulla Costituzione, le condizioni dovrebbero essere "più rigide".
I poteri del presidente della Repubblica vengono ridotti?
"Il governo Meloni vuole introdurre l'elezione diretta, ma cerca di non cambiare i poteri. Il problema è che se introduci l'elezione diretta crei una dinamica di aspettativa su colui che viene eletto direttamente, spingendolo a un confitto con il Capo dello Stato. Meglio scrivere precisamente i poteri, piuttosto che lasciarli apparentemente inalterati, perché così aumenta il rischio di conflitti", ha spiegato il costituzionalista.
"In particolare, si riducono i poteri del Presidente della Repubblica, nel caso di formazione di un secondo governo, che è previsto per dare un po' di flessibilità al sistema. In questo modo però la riforma predetermina che colui che guida un secondo governo sia un altro parlamentare eletto nella maggioranza. Quindi come si vede il potere di nomina del Presidente della Repubblica in caso di crisi risulta compresso, perché il Capo dello Stato non può più ricorrere ad altre personalità esterne alla maggioranza".
"Questo meccanismo tra l'altro non dà una particolare stabilità al governo, perché introduce una possibile dinamica di rivalità interna alla maggioranza. Per esempio il capo del secondo partito a un certo punto potrebbe voler subentrare alla guida del governo, e a quel punto potrebbe provocare una crisi, facendo alleanze spurie".
Perché servirebbe il modello tedesco
Il professor Stefano Ceccanti avrebbe preferito un modello più semplice: "Sono d'accordo su una legge elettorale a dominante maggioritaria, costituzionalizzando il premio di maggioranza insieme ad una soglia in voti per ottenerlo, con alcune garanzie, come un eventuale secondo turno. In questo modo avremmo una maggioranza la sera del voto, dalle urne uscirebbe una precisa ipotesi di governo. Ma ci sono già esperienze storiche positive, come il modello tedesco".
"Le norme costituzionali tedesche prevedono alcuni articoli che stabilizzano il governo senza ingessarlo. Bastava trasporre gli articoli chiave della Costituzione tedesca: una sola Camera dà la fiducia, mentre la seconda Camera fa altro; la fiducia viene data dalla prima Camera solo al presidente del Consiglio; il primo ministro oltre a proporre al Capo dello Stato la nomina dei ministri può proporne la revoca; è possibile poi sostituire il presidente del Consiglio se si trova su un altro nome una maggioranza assoluta del Parlamento; se il presidente del Consiglio perde una votazione sulla fiducia può chiedere al Capo dello Stato di sciogliere anticipatamente le Camere, e il Capo dello Stato le scioglie a meno che entro pochi giorni non si trovi un altro presidente del Consiglio da eleggere a maggioranza assoluta. Queste norme, abbinate a una legge più maggioritaria di quella tedesca, potrebbero portare a un punto di equilibrio tra un'esigenza di stabilità e un minimo di flessibilità".
"Perché quest'esigenza di inventarci un sistema nuovo, mai sperimentato, in cui abbiamo un premier eletto direttamente, che non ha nemmeno i poteri che hanno i primi ministri che non vengono eletti direttamente?".
Quando potrebbe tenersi un referendum sulla riforma costituzionale?
Se la riforma dovesse essere approvata, nelle intenzioni del governo, dovrebbe entrare in vigore per le elezioni del 2027. Un eventuale referendum dovrebbe quindi essere celebrato al massimo nella seconda parte del 2026. La Costituzione prevede infatti che le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali siano sottoposte a referendum nei casi in cui, pur essendo state approvate nella seconda votazione a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, non abbiano però ottenuto il voto favorevole di almeno i due terzi dei componenti stessi. "Ma la maggioranza ad un certo punto potrebbe rinunciare al progetto – ha osservato Ceccanti – perché attualmente nel corpo elettorale ha il 45% dei voti validi, se si mettesse contro le opposizioni rischierebbe di perdere. Non è detto quindi che vada fino in fondo".