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Covid 19

Cartabellotta a Fanpage: “Riaprire ora? Folle, chi ne parla vuole solo tornare sotto i riflettori”

“Riaprire ora? Chi ne ha parlato in questi termini lo ha fatto con il solo intento di tornare al centro della scena mediatica. È semplicemente folle l’idea di iniziare a riaprire le imprese prima di Pasqua o le scuole ai primi di maggio”: così il dottor Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che si occupa di ricerca in ambito sanitario, ha spiegato a Fanpage.it perché sia ancora importante rimanere a casa.
A cura di Annalisa Girardi
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Da ormai una settimana i numeri dei nuovi positivi al coronavirus sono in costante calo. Ma sono ancora moltissime le persone contagiate: gli ospedali rimangono sovraccarichi di pazienti, molte terapie intensive restano vicine al collasso e i morti sono ancora tantissimi. Tuttavia, iniziano già ad arrivare le spinte per riaprire. Per il dottor Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe che si occupa di ricerca in ambito sanitario, è semplicemente "folle" parlare di allentare ora le misure di sicurezza. Fanpage.it ha chiesto al dottor Cartabellotta perché sia ancora importante rimanere in casa, cercando allo stesso tempo di fare chiarezza sui dati che ci sono arrivati negli ultimi giorni.

I dati degli ultimi giorni sul coronavirus mostrano un lieve calo per quanto riguarda i nuovi contagi e i decessi. Si può parlare di tendenza o è troppo presto? Come vanno analizzati questi numeri?

Il “numero magico” che va monitorato è l’incremento percentuale dei casi totali rispetto al giorno precedente, quello che appena raggiunge lo 0% ci conferma che non ci sono più nuovi casi. Al 31 marzo il dato nazionale è del 4% con trend in discesa negli ultimi giorni: era 12,6% il 17 marzo e 8,2% il 24 marzo. Ma esistono notevoli variabilità regionali, sia perché il virus si è diffuso in maniera progressiva e variabile in una Italia “stretta e lunga”, sia in ragione di differenti policy regionali sull’uso dei tamponi che, inevitabilmente, condizionano il numero dei casi confermati. Ecco perché è impossibile parlare di “picco”, l’araba fenice di questa epidemia. Se per picco intendiamo il giorno in cui si è raggiunto il numero massimo di casi in Italia, al momento è il 21 marzo: ma nei giorni successivi non c’è stata una progressiva discesa, bensì un effetto yo-yo determinato dai fattori di cui sopra.

Mentre calano morti e contagiati, sono sempre di più i pazienti guariti: come devono essere monitorate queste persone? Potrebbero contrarre nuovamente l’infezione?

Le nostre analisi preliminari, non ancora pubblicate, dimostrano che il “contenitore” della Protezione Civile “Dimessi/Guariti” è molto eterogeneo e include almeno tre categorie di casi: pazienti che hanno effettuato il doppio tampone a distanza di 24 ore e sono negativi al coronavirus; pazienti clinicamente guariti (senza conferma del doppio tampone) e soggetti dimessi dagli ospedali non ancora guariti e in isolamento domiciliare. Per ciò che riguarda i pazienti virologicamente guariti (con doppio tampone negativo) non abbiamo peraltro ancora la certezza assoluta che la negativizzazione conferisca lo stato di immunità permanente al virus, anche se i casi di re-infezione documentati in letteratura sono al momento molto rari.

C’è chi sta parlando di riaprire le attività produttive. Ha senso parlare adesso di riapertura oppure mancano ancora le condizioni minime in campo sanitario per poterlo fare?

Chi ne ha parlato in questi termini lo ha fatto con il solo intento di tornare al centro della scena mediatica. È semplicemente folle l’idea di iniziare a riaprire le imprese prima di Pasqua o le scuole ai primi di maggio: semmai, mi preme sottolineare che in assenza di un lockdown totale, tardivo e con un’aderenza non ottimale alle misure di distanziamento sociale, gli effetti complessivi sono minori rispetto a quelli attesi. Bisogna stare a casa, avere pazienza e utilizzare al meglio questo tempo per programmare sulla base delle evidenze scientifiche la ripresa della vita sociale e delle attività economiche, che inevitabilmente non potrà essere identica nelle varie aree del Paese.

La competenza su base regionale in materia di sanità è risultata un problema nella gestione dell’emergenza?

In sanità quello della leale collaborazione Governo-Regioni, a cui l’art. 32 affida la tutela della nostra salute, è uno scottante tema politico sul quale i vari esecutivi hanno abdicato o cercato soluzioni improbabili, tanto che in poco tempo ha attraversato da un estremo all’altro l’intera gaussiana. Il diritto alla tutela della salute delle persone è stato infatti catapultato dalla riforma dell’art. 117 della Costituzione, che con l’eliminazione della legislazione concorrente e la restituzione allo Stato di alcuni poteri esclusivi avrebbe dovuto porre fine alle diseguaglianze regionali, alla contagiosa diffusione, in attuazione dell’art. 116, del virus del regionalismo differenziato. La situazione di emergenza sanitaria ha enfatizzato l’impossibilità di una catena di comando unica, viste le innumerevoli differenze regionali nella gestione dell’assistenza ai pazienti COVID. C’erano (e ci sono) gli estremi per applicare l’art. 120 della Costituzione ove si prevede espressamente che il Governo possa sostituirsi alle Regioni in caso di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica.

Un dato che sta facendo molto discutere è quello della letalità: secondo alcuni nei registri ufficiali non si starebbero conteggiando le persone morte in casa. I numeri dei decessi sono sottostimati?
Il numero assoluto dei decessi è sicuramente sottostimato perché i soggetti deceduti in casa, nelle residenze assistenziali per anziani e nelle case di riposo (e occasionalmente in ospedale) non sono stati tutti testati con il tampone. D’altro canto, il tasso grezzo di letalità (11,7% al 31 marzo) risulta ampiamente sottostimato perché non conosciamo il numero reale dei soggetti contagiati: se è vero che si collocano nell’ordine di alcune centinaia di migliaia, il tasso di letalità in Italia si allineerebbe a quello di altri paesi. Infine da sottolineare che in Lombardia, il tasso di letalità è doppio (16,7%) rispetto alle altre regioni (8,4%) non perché lì circola un virus più letale, ma per il sovraccarico degli ospedali e in particolare delle terapie intensive, come dimostra anche la narrativa di chi lavora in prima linea.

Lo stesso vale per il reale numero di contagi. Secondo molti i positivi sarebbero molti di più delle persone risultate ufficialmente positive al tampone. Come influisce questa incertezza rispetto ai numeri sull’efficacia delle risposte messe in campo dalle autorità?

In generale, gli italiani sono molto spaventati dai dati ufficiali da cui, numeri a parte, emerge una grave patologia grave.

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Questa distribuzione di gravità della malattia risulta molto più severa di quella cinese: infatti, lo studio condotto sulla coorte cinese e  pubblicato su Jama riportava 44.415 casi confermati di cui 81% lievi, 14% severi (ospedalizzati) e 5% critici (in terapia intensiva), con un tasso grezzo di letalità del 2,3%. Tuttavia, considerato che in Italia i tamponi vengono effettuati prevalentemente sui soggetti sintomatici, la gravità della COVID-19 è ampiamente sovrastimata perché vediamo solo la punta dell’iceberg. Assumendo una distribuzione di gravità della malattia sovrapponibile a quella della coorte cinese abbiamo stimato che la parte sommersa dell’iceberg contenga circa 165.000 casi lievi/asintomatici non identificati, per un totale di quasi 260.000 casi. Includendo questi casi nel denominatore, la casistica italiana si “ricompone” ridimensionando gravità e letalità, ma d’altra parte ci rende consapevoli che esistono un numero enorme di casi non identificati per i quali l’unica misura efficace è il distanziamento sociale messo in campo dalle autorità.

Infine, in Italia è altissimo il numero di contagiati tra il personale sanitario. Qual è il peso di questo dato nel quadro dell’emergenza? Che cosa è andato storto?

Al 31 marzo sono 9.512 i professionisti sanitari che hanno contratto un’infezione da coronavirus, ovvero il 9% dei casi totali in Italia, percentuale più che doppia rispetto allo studio di Jama pubblicato sulla coorte cinese (3,8%). È evidente che le attuali raccomandazioni per la protezione degli operatori in prima linea a combattere l’emergenza sono state finora fortemente inadeguate. La situazione è molto allarmante per due ragioni: da un lato se si ammalano medici, infermieri e altri professionisti e operatori sanitari in prima linea, sia in ospedale che sul territorio, il servizio sanitario non potrà assicurare l’assistenza alla popolazione. Dall’altro professionisti sanitari contagiati rischiano di veicolare l’infezione ai pazienti, in particolare a pazienti fragili e affetti da comorbidità, bersaglio prediletto per le complicanze della COVID-19, peggiorando il quadro clinico e aumentando la mortalità. Occorre rifornire urgentemente le strutture sanitarie di tutti i dispositivi di protezione individuali secondo la logica del “whatever it takes”: se vogliamo vincere questa guerra è fondamentale prendersi cura di chi si prende cura. In tal senso, abbiamo proposto di modificare le linee guida nazionali per la protezione degli operatori sanitari dell’Istituto Superiore di Sanità. Il documento è stato recentemente aggiornato, integrando alcuni (ma non tutti) i nostri suggerimenti.

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