“Un’azienda privata può fare quello che vuole”. Sarebbe dunque questa la linea del ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi di fronte alla prospettiva di un lento ma graduale disimpegno di Fiat dagli investimenti in Italia. Cominciamo bene, verrebbe da dire considerando che si tratta di una delle prime dichiarazioni pubbliche della Guidi, che in queste prime settimane si è tenuta lontana dai riflettori e dai taccuini dei giornalisti. E probabilmente ha fatto più che bene, se il tenore dei suoi interventi è questo. Perché le considerazioni della Guidi suonano come un pugno nello stomaco e rappresentano una inutile e superflua difesa "anticipata" delle operazioni del management Fiat.
Ma soprattutto rappresentano il definitivo atto di resa di uno Stato che alla Fiat ha dato tutto ciò che era possibile dare, con una politica compiacente e veri e propri regali. Solo negli ultimi 30 anni la cifra ricevuta dallo Stato ammonterebbe a circa 7,5 miliardi di euro, secondo le stime della Cgia di Mestre (altre stime parlano di circa 100 miliardi tra finanziamenti diretti ed indiretti dagli anni della fondazione del gruppo), facendo della Fiat l'azienda più assistita al mondo. E soprattutto facendone l'esempio più lampante del "capitalismo all'italiana", pompato da iniezioni di soldi pubblici, con la complicità di politici e faccendieri. Cifre mostruose che dovrebbero spingere persino la Guidi ad una riflessione di senso. O almeno a tacere, nella peggiore delle ipotesi. Perché quello della Fiat è un debito vero e proprio. Concreto e morale, contratto con il nostro Paese, con i suoi operai e persino con i suoi clienti.