Cari "No green pass", i giornalisti non li fermate con una spinta, anche se la spinta mi ha fatto cadere in terra. Non è successo ieri, e non succederà domani.
I giornalisti non li fermi soprattutto se li insulti, li discrediti, li prendi a calci negli stinchi, come è accaduto (ancora una volta) ieri pomeriggio a Milano, per sei ore consecutive, ogni volta in cui abbiamo provato ad avvicinarci al corteo.
Noi giornalisti continueremo a fare l'unica cosa che sappiamo fare: raccontare. È questo che abbiamo provato a fare ieri, prima, durante e dopo le spinte e gli insulti: raccontare chi c'era e quello che accadeva. Lo abbiamo sempre fatto, durante manifestazioni di ogni tipo e genere, e continueremo a farlo.
Perché continuiamo ad andare nelle manifestazioni dove non ci vogliono?
La nostra presenza in piazza non la decidono le persone in piazza, ma l'unica idea che ci muove: raccontare la realtà. Attenzione: non semplicemente dare un microfono a caso ai presenti, quello sarebbe un megafono. Noi invece poniamo domande, e quando non ci si riesce, quando si viene aggrediti, quando ci viene impedito, allora raccontiamo le aggressioni che ci hanno impedito di fare il nostro lavoro. Semplice, no?
Nessuno vi irride, nessuno vi provoca. Siete stati liberi per la sedicesima settimana consecutiva di manifestare, bloccare il traffico, chiamare all'adunata, per questo noi ci dobbiamo essere: per raccontarvi, anche se a voi non piace. Dobbiamo raccontare perché gridate "libertà" e poi impedite a qualcuno di essere libero.
Dobbiamo raccontare perché ci date dei terroristi.
Perché ci accusate di scrivere fake news.
Dobbiamo raccontare anche perché non credete a nessuno dei dati ufficiali, ma credete a un sito o a un canale Telegram conosciuti per essere culla di complotti.
Perché sfilate con una bara finta e la bandiera italiana, e poi non credete alle "bare di Bergamo"?
Perché dite di difendere la "libertà di opinione" ma tollerate soltanto la vostra?
Perché volete i giornalisti soltanto a patto che non facciano il loro mestiere?
Noi non siamo in piazza per questioni personali, perciò gli insulti che ci vomitate addosso, finanche i fischietti soffiati a tutto volume dentro i timpani, per ore, non ci smuovono di un millimetro. Questa non è una sfida, eventualmente è una resa: a noi tocca esserci comunque, come a un netturbino togliere la spazzatura o a un medico alleviare una sofferenza, è il nostro lavoro. E continueremo a farlo.
Se avete qualcosa da dire, ditela. Non impeditevi di comunicare dando ascolto alla vostra paura. La paura è una cattivissima consigliera. Nessuno vi vuole fregare, certamente non lo vuole fare chi ha un microfono in mano e una telecamera, e vorrebbe ascoltarvi e porre domande. Questo non significa dover fingere di pensarla come voi, o essere come voi, significa credere al valore delle parole come unica percezione distinguibile fra noi e gli altri animali.
Io nel mio lavoro ho sempre messo il mio corpo a disposizione. Non è eroismo, semplicemente non saprei fare altro. Continuerò a farlo, e a provarci ogni volta che vi incontrerò in piazza. In fondo sono come voi: ho la testa dura e amo il mio lavoro.