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Carceri italiane, Antigone: “Record di suicidi nel 2024, è una crisi senza precedenti”

Con 88 suicidi e un’escalation di episodi critici, il 2024 segna il punto più drammatico per le carceri italiane. Fanpage.it ha intervistato Alessio Scandurra, Coordinatore nazionale Osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione, che denuncia un sistema sempre più drammatico e inadeguato.
A cura di Francesca Moriero
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Il 2024 sarà ricordato come un anno ancor più nero per le carceri italiane. Il sistema penitenziario ha raggiunto infatti un tragico record: 88 suicidi tra le persone detenute, il dato più alto mai registrato, superiore persino agli 84 casi del 2022. Secondo l’ultimo report dell'Associazione Antigone, dall’inizio dell’anno sono morte in carcere complessivamente 243 persone detenute, un numero che sembra riflettere una crisi sempre più profonda del sistema penitenziario. Al 16 dicembre 2024, i detenuti nelle carceri italiane sono saliti a 62mila, mentre i posti realmente disponibili si fermano a circa 47mila, con un tasso di sovraffollamento del 132,6%.

In istituti come quello di San Vittore, a Milano, l’affollamento supera il 225%, rendendo insostenibili le condizioni di vita e di gestione. Nonostante il sovraffollamento, i posti effettivi continuano a diminuire, passando da 3.665 non disponibili nel 2022 a 4.462 nel 2024, a causa di incuria e manutenzioni insufficienti. Nel report si legge che la tragedia colpisce soprattutto i giovani, con almeno 23 vittime tra i 19 e i 29 anni, e le persone straniere, che rappresentano almeno 40 dei casi registrati.

Le storie di chi si è suicidato spesso rivelano poi anche un passato segnato dal disagio: molte delle vittime soffrivano infatti di problemi psichici, dipendenze o vivevano in condizioni di estrema precarietà, alcuni senza una fissa dimora. Secondo il Garante Nazionale, oltre la metà di queste persone aveva già vissuto episodi critici in carcere, e almeno 21 avevano tentato il suicidio in precedenza. In quasi l’80% dei suicidi, le tragedie si sono consumate nelle sezioni a custodia chiusa, aree spesso caratterizzate da isolamento e condizioni di vita particolarmente dure.

Non sono però solo i suicidi a descrivere il clima di sofferenza che si respira dietro le sbarre. Gli episodi critici continuano a crescere: ogni 100 detenuti si contano più di 20 atti di autolesionismo, 2,5 tentativi di suicidio, 2,6 aggressioni al personale e 7,7 aggressioni tra detenuti. Numeri tutti in aumento rispetto al 2023, che segnalano un sistema sempre più fragile e incapace di garantire sicurezza, sia ai detenuti sia agli operatori.

In questo contesto già teso, il disegno di legge sulla sicurezza, attualmente in discussione al Senato, secondo Antigone, rischia di peggiorare ulteriormente la situazione. Le nuove norme prevedono infatti pene più severe per le proteste non violente, una misura che potrebbe esasperare la tensione all’interno degli istituti. Come sottolineato da Antigone, il modello di carcere basato su sezioni chiuse e misure repressive dimostra di essere non solo inefficace, ma anche dannoso, alimentando conflitti e insicurezza. L’associazione invita a investire nelle strutture esistenti e nelle misure alternative alla detenzione, "piuttosto che continuare a ignorare una crisi sempre più esplosiva".

Fanpage.it ha intervistato Alessio Scandurra, Coordinatore nazionale Osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione.

Nel 2024 è stato registrato il più alto numero di suicidi in carcere mai visto. Quali sono le principali cause?

Il sistema penitenziario italiano vive un momento di crisi senza precedenti. In passato abbiamo anche avuto più detenuti e un sovraffollamento maggiore di oggi. Ma mai così tanti suicidi, così tante morti, così tanti incidenti e proteste. Pesa probabilmente la crescente chiusura del carcere, il passaggio quasi generalizzato dalle sezioni aperte alle sezioni chiuse, e probabilmente anche la mancanza da parte della politica, nazionale e locale. Chi è in carcere, perché detenuto o perchè ci lavora, teme che non ci siano soluzioni in vista e che la situazione possa solo a peggiorare.

Il report mostra una crescita significativa di atti di autolesionismo, tentativi di suicidio e aggressioni. Quali sono i fattori principali che alimentano questo aumento e cosa si può fare per arginare la tensione negli istituti?

Le condizioni di detenzione sempre più difficili creano inevitabilmente una crescente tensione che in ogni momento può esplodere, e lo fa spesso, contro gli altri detenuti, il personale o contro le stesse strutture. E’ indispensabile pensare a risposte straordinarie di emergenza, all’altezza della gravità della situazione, ma bisogna anche mostrare, di nuovo, tanto ai detenuti quanto al personale, che c’è anche una visione di lungo periodo, che il carcere di domani sarà diverso da quello di oggi: un carcere costituzionalmente orientato.

Quasi l’80% dei suicidi avviene nelle sezioni a custodia chiusa. Quali sono le condizioni in questi reparti e perché sono così critici per il benessere delle persone detenute?

Uscire dalla cella, vedere persone, essere coinvolti in attività costruttive fa ovviamente bene alla salute, fisica e mentale, di chi vive un momento drammatico della propria vita come la detenzione. Quando tutto questo non c’è, resta solo l’angoscia e la disperazione. Inoltre, dove ci sono molte attività, è facile notare chi resta a letto tutto il giorno, non interagisce con gli altri, o mostro altri segni che sono caratteristici dei momenti di maggiore disagio e sconforto. Se si resta tutti chiusi tutto il giorno questi segnali di allarme diventano più difficili da notare.

Molte delle persone decedute in carcere avevano già alle spalle storie di disagio psichico, tossicodipendenza o vivevano senza una fissa dimora. Come si può intervenire su questi aspetti di marginalità? 

Purtroppo stiamo parlando di condizioni molto diffuse tra la popolazione detenuta. Il carcere è fatto in larga parte da persone che hanno storie di vita, familiari e socio-sanitarie difficilissime. Spesso è per quello che sono in carcere, è per quello che hanno fatto le scelte che hanno fatto, e spesso sono queste stesse ragioni quelle per cui tornano di nuovo in carcere dopo esserne usciti. Il carcere deve, nell’interesse di tutti, dare risposte adeguate a questi bisogni ma è un compito immane e le risorse a disposizione sono risibili. Mancano i mediatori e gli educatori, i direttori non bastano, mancano i medici e il lavoro e la formazione professionale sono inadeguati. Va fatto un salto di qualità se si vuole sperare che il carcere possa davvero servire a qualcosa.

Il ddl sicurezza, tra le varie cose, introduce pene più severe per le proteste non violente. Quali rischi comporta per la gestione delle carceri? Il ricorso a misure repressive può essere una risposta efficace alle problematiche del sistema penitenziario?

E’ una strategia scellerata i cui frutti già si vedono. Da quando sono aumentate le chiusure ed è stato adottato questo approccio muscolare di tolleranza zero gli incidenti sono aumentati, non diminuiti, e la vita si è fatta più difficile per tutti, anche per il personale. E se il reato di rivolta carceraria, come temiamo, allungherà le pene di anni a migliaia di persone che sono già detenute, persone già oggi disperate e che non hanno davvero nulla da perdere, la situazione non può che peggiorare. Ci vuole ascolto, capacità di mediazione dei conflitti e bisogna attrezzarsi per essere in grado di fornire un'ampia gamma di risposte. La rigidità e la chiusura possono essere una tra queste, non certo l’unica.

Quali soluzioni concrete deve adottare il Governo per migliorare le condizioni di vita nelle carceri e ridurre il numero di questi tragici episodi?

Come dicevo, nell’immediato è possibile adottare solo misure deflattive straordinarie: allargare l’applicazione della liberazione anticipata, far uscire subito chi ha pochi mesi da scontare, lasciar dormire fuori i semiliberi, in modo da recuperare spazi per chi è detenuto. Misure dall’efficacia immediata che possano affrontare i problemi che abbiamo in questo momento.
Ma fatto questo, bisogna certamente ripensare il funzionamento di tutto il sistema, che altrimenti tornerà rapidamente ad affollarsi. La pena deve avere un senso, per chi la sconta e per chi, fuori dal carcere, la finanzia con le proprie tasse. Deve dare opportunità di cura, di formazione e di reinserimento. Bisogna che, chi ha scontato la propria pena, non torni a delinquere, a danno di tutti e tornando ad affollare il sistema in un circolo sempre più vizioso. E quando è più facile ottenere questi risultati con le pene alternative, anziché con il carcere, bisogna farlo con convinzione. Perché una società più giusta e più sicura è un vantaggio per tutti.

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