Bilancio Ue, il compromesso è al ribasso: il Parlamento si arrende agli Stati
Dall’emergenza Covid-19 non nascerà un’Europa più solidale, solo più povera. Altro che transizione ecologica, digitale e risorse per la ricerca e l’educazione, l’Unione europea dovrà sopravvivere nei prossimi anni con una coperta troppo corta. Martedì pomeriggio è stato raggiunto l’accordo tra Parlamento e Consiglio sul bilancio europeo, ai 1074 miliardi proposti dai leader europei se ne aggiungono 16. Per il Presidente David Sassoli è la dimostrazione che “questo Parlamento non si lascia addomesticare dagli Stati nazionali”, per chi ha seguito le promesse della vigilia sembra più un boccone amaro che Bruxelles è stata costretta a ingoiare per evitare di essere incolpata dei ritardi del Recovery Fund.
Il Consiglio europeo durante le trattative ha accusato il Parlamento di tenere in stallo il Recovery Fund e grazie a questo ha avuto il controllo delle negoziazioni, spostando l'attenzione dalla cifra complessiva del budget e costringendo quindi a chiudere con un accordo al ribasso. Il Parlamento europeo non è riuscito a togliersi dalla morsa in cui è stato incastrato dagli Stati nazionali (e quindi dal Consiglio, loro espressione) che intimavano di "fare presto" per permettere ai fondi della ripresa di arrivare e a farne le spese è stato ancora una volta il bilancio europeo. Sulle dimensioni del budget le istituzioni europee partivano da posizioni molto diverse. I primi scontri ci sono stati a febbraio, l’emergenza coronavirus ha poi ritardato tutto e cambiato ancora una volta le carte in tavolo. Il Consiglio è riuscito a mediare su un accordo che destinava 750 miliardi alla ripresa (permettendo per la prima volta alla Commissione di contrarre debiti sul mercato) e 1074 al bilancio europeo. Un’intesa celebrata come “storica”, ma che nascondeva i pesanti tagli alla salute, alla ricerca e a Erasmus+. A salvarsi solamente le spese destinate alla difesa (passate da uno 0,5 del 2014-2020 a 7 miliardi per il 2021-2027) e i 5 miliardi dello “European Peace Facility”, un controverso strumento off-budget che ha tra i suoi obiettivi l’esportazione di armi in zone di guerra. Addirittura aumentati i cosiddetti “rebates”, ossia gli sconti che alcuni paesi (Germania, Danimarca, Austria, Svezia e Olanda) hanno sul proprio contributo al bilancio. Per evitare che fossero i programmi dell’Unione a pagare le spese della crisi, il Parlamento europeo ha annunciato battaglia e ha definito “inaccettabili” i tagli proposti dal Consiglio. A separare la prima proposta del Parlamento e l’ultima del Consiglio c’erano ben 250 miliardi. Per avere una speranza nelle negoziazioni il Parlamento ne ha chiesti molti meno, 39, per chiuderle si è accontentato di meno della metà.
Ora non ci sono più scuse per far partire il Recovery Fund, ma mancano ancora molti passaggi. Per dare il via allo strumento sulle ripresa il Consiglio deve trovare un accordo sul cosiddetto sistema delle "risorse proprie". Si tratta di fondi che l'Ue vuole reperire in maniera indipendente per evitare di rimanere legata ai veti dei governi nazionali, sempre meno inclini a spostare risorse dai propri bilanci a quelli comunitari. Anche questa però non è una strada in discesa, perché comporta l'introduzione di nuove tassazioni.Il Parlamento ha trovato la sua posizione a metà settembre definendo una tabella di marcia per la tassa sulla plastica, la revisione del mercato delle emissioni e l'imposta sulle transizioni finanziarie e quella sul digitale e l'ha ribadita nell'accordo di martedi. Manca però l'intesa dei 27 ministri delle finanze e successivamente toccherà ai parlamenti nazionali esprimersi. Solo a quel punto la Commissione potrà andare sul mercato per alimentare il Recovery Fund.