Berlinguer, il mito di un rimpianto politico
Non vorrei sembrare irriverente ma quello che si ricorda oggi non è l’anniversario della morte di Berlinguer ma il mito di Berlinguer. Indubbiamente si tratta, insieme ad Aldo Moro, del politico più celebrato dell’Italia repubblicana.
Sarà per quell’aura aristocratica che circondava la sua figura di borghese guida della classe operaia (Forattini nelle sue vignette rendeva plasticamente il senso di questa dicotomia paradossale); sarà perché è stato il simbolo della speranza di una sinistra maggioritaria in grado di mutare il corso della storia italiana; sarà per il coraggio con cui affermò che era terminata “la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”; sarà per il castello di retorica innalzato intorno alla questione morale (divenuto luogo comune di politici in cerca di visibilità); forse sarà anche per l’isolamento subito nei primi anni Ottanta a causa della politica del preambolo; fatto sta che Berlinguer da uomo si è trasformato in un totem che contiene tutte le aspirazioni, i desideri, le speranze e le manchevolezze della sinistra italiana.
La morte ha trasportato i valori che incarnava, in quanto segretario del Partito comunista italiano, nell’Olimpo intangibile della mitologia politica. Una rapida ascensione alla santificazione laica agevolata dall’eroismo con cui ha affrontato il Calvario della fine.
Un politico di professione che, mentre sta tenendo un comizio, sente arrivare l’ictus ma non cede al dolore, né allo stato confusionale per terminare il suo discorso di mobilitazione in vista delle elezioni europee nell’Italia cattolica è immediatamente associato alla figura del martire: l’uomo, presentendo la morte, si batte con coraggio fino allo stremo delle forze.
Un gesto che ha il valore della testimonianza esemplare offerta ai contemporanei e ai posteri. Berlinguer muore esemplarmente mentre sta lavorando così come muoiono migliaia di operai nelle fabbriche, nei cantieri e nelle officine. Ma nella società dei mezzi di comunicazione di massa la dipartita in diretta (ripresa dalle telecamere presenti al comizio) diventa spettacolo e propaganda: la lotta di classe è senso del dovere, etica della responsabilità, forza di volontà.
Il martirio di Berlinguer è così ingessato nella meccanica del sacrificio: l’azione è il riconoscimento di un mondo in cui è necessario cedere una parte di sé per poter interagire con gli altri. In quanto segretario del Pci, diventa il simbolo di una sinistra che, tra vittorie, lutti e sconfitte, anela una mitica salvezza collettiva attraverso la dedizione al bene comune e alla difesa dei diritti.
In continuità con il sentire cristiano il Partito comunista, i cui valori sono stati mummificati con il decesso del compianto leader, si scopre essere una comunità di fratelli meritevole di venerazione in quanto soggetto dotato di respiro etico nazionale.
Del resto nella cultura comunista il culto del capo e l’infallibilità del partito sono parte integrante dell’azione politica generale. Forse l’attuale personalismo deriva proprio dalla degenerazione di questa cultura.
Con le ultime sofferte parole, consegnate ai militanti di Padova, Berlinguer lascia il suo testamento: «Impegnarvi tutti… con lo slancio che sempre i comunisti hanno dimostrato nei momenti cruciali. Lavorate tutti casa per casa, cantiere per cantiere, strada per strada dialogando». Ha il volto pallido, si toglie gli occhiali, il pubblico urla «Enrico, Enrico, Enrico». Il segretario è debole, una maschera funerea, si mantiene al leggio per non cadere. La telecamera allarga lo zoom e immortala, prima della fine, la figura sofferente del capo sotto il simbolo del partito. Funzionari e dirigenti lo applaudono ignari del futuro.
Inizia così il cammino verso la santificazione che troverà la sua massima espressione nel documentario sui funerali di Berlinguer realizzato da Bernardo Bertolucci: il ritorno del feretro, la camera ardente con i pugni levati al celo, i commenti dei compagni, dei dirigenti, degli intellettuali, dell’intero popolo comunista. E c’è anche Gorbaciov che dice: «Noi comprendiamo il profondo dolore che muove adesso tutto il popolo italiano».
Enrico, nella parole del leader sovietico, è elevato al rango di martire del socialismo. Intanto si vede sfilare un fiume umano sotto la coltre delle bandiere rosse.
Berlinguer diventa patrimonio nazionale della politica italiana, anzi la limpidezza del suo mito diventa sempre più evidente in virtù di una partitocrazia avvitata su se sessa e in preda ad una lunga crisi, cominciata con la morte di Aldo Moro, che avrà il suo apogeo nel Novantadue.
Con il passare degli anni e le conseguenti mutazioni del principale partito della sinistra italiana, il mito del segretario trasfigura in una roboante laudatio temporis acti: quando c’era Enrico la sinistra era portatrice di virtù umane e sociali, schierata dalla parte degli ultimi per il miglioramento delle condizioni di vita di disagiati e operai.
Berlinguer, attraverso il continuo richiamo alla questione morale, diventa termine di paragone inarrivabile che stride al confronto con la decadenza dell’Italia contemporanea. Non a caso Antonello Venditti, proprio nell’anno di Tangentopoli, gli dedica la canzone “Dolce Enrico”: «Enrico, se tu ci fossi ancora /ci basterebbe un sorriso /per un abbraccio di un'ora. /Il mondo cambia, ha scelto la bandiera /l'unica cosa che resta è un'ingiustizia più vera. /Qui tutti gridano, qui tutti noi siamo diversi /ma se li senti parlare sono da sempre gli stessi. /E quante bugie, quanti segreti in fondo al mare /pensi davvero che un giorno noi li vedremo affiorare?».
Il comunismo è finito ma Berliguer viene evocato come un santo che potrebbe riportare ordine in un modo corrotto e incomprensibile in cui i valori universali sono stati scambiati con interessi particolari.
Il mito del segretario rimane ancora oggi, nell’epoca dei social network, un faro etico. Decine di militanti digitali postano le sue immagini e ne richiamo le qualità politiche e le doti umane in pagine fan su Facebook, siti internet e video ultra-cliccati su Youtube. È la nostalgia della buona politica.
Eppure prima di concludere non si può non sottolineare che il monumento di immagini e parole sovrastante la figura di Berlinguer ha nascosto le lacune delle sue scelte e in qualche caso il conservatorismo delle sue posizioni.
Ancora nel 1983, in un’intervista su “L’Unità”, si attardava alla ricerca di un nesso che desse senso all’azione del comunismo italiano, cercando di innovare la lotta attraverso nuovi paradigmi, o meglio riadattando la cultura novecentesca del socialismo all’avanzata imperante del neoliberismo thatcheriano. Ma per quanto la sua curiosità intellettuale lo spingesse a confrontarsi con il cambiamento provocato dall’economia finanziaria, che stava fagocitando l’economia industriale, non si avvedeva di un dato: il concetto di classe sociale era scivolato nel baratro dell’oblio sostituito dall’individualismo globale della rivoluzione informatica.
Se oggi Berlinguer è l’icona di un’altra Italia forse lo dobbiamo proprio alla memoria digitale che innesta il mito del segretario nell’immaginario collettivo nazionale.