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Basta vittimizzazione secondaria: chi subisce violenza sessuale non deve finire al banco degli imputati

Quello avvenuto al tribunale di Tempio Pausania è un caso di vittimizzazione secondaria. Perché se è vero che gli avvocati della difesa hanno tutto il diritto di accertare la testimonianza della vittima, ciò non consente loro di sottoporla a domande degradanti e ri-traumatizzanti.
A cura di Jennifer Guerra
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Oggi Antonella Cuccureddu, l’avvocata di uno dei quattro imputati nel processo di violenza sessuale di gruppo in cui è coinvolto anche Ciro Grillo, figlio di Beppe Grillo, si dice “intimidita” dalle polemiche scatenate dalle sue domande durante la deposizione della parte offesa. Domande intime e insistenti, che l’avvocato della giovane donna ha definito “da Medioevo”: “Ma se aveva le gambe piegate, come ha fatto a toglierle i pantaloni?”, “Ci può spiegare come le sono stati tolti gli slip?”, “Perché non ha reagito con i denti durante il rapporto orale?”.

Quello avvenuto al tribunale di Tempio Pausania è un caso di vittimizzazione secondaria. Perché se è vero che gli avvocati della difesa hanno tutto il diritto di accertare la testimonianza della vittima, ciò non consente loro di sottoporla a domande degradanti e ri-traumatizzanti. La Convenzione di Istanbul, che l’Italia ha firmato nel 2013, all’articolo 18 prevede di evitare la vittimizzazione secondaria e, più in generale, di “proteggere tutte le vittime da nuovi atti di violenza”. L’iter giudiziario è una delle fasi più esposte al rischio di ripetizione della violenza: è stato più volte sottolineato, anche da condanne che l’Italia ha subìto da parte di organi europei come la Corte europea dei diritti dell’uomo, che nella fase del processo entrano in gioco radicati stereotipi di genere.

Rispetto ad altri processi, quello per violenza sessuale è caratterizzato dal fatto che la vittima deve dimostrare di aver subìto il reato. Come disse l’avvocata Tina Lagostena Bassi nel celebre “Processo per stupro” del 1979, “Nessuno di noi avvocati si sognerebbe d'impostare una difesa per rapina come s'imposta un processo per violenza carnale”, ovvero dimostrando che la rapina non c’è stata o accusando il gioielliere di essere un usuraio. Nel caso dello stupro, quello che accade è proprio questo: o si dimostra che non c’è stata nessuna violenza, o si punta tutto sulla mancanza di credibilità della vittima. Nel caso in questione, il meccanismo era già partito prima dell’inizio del processo, quando Beppe Grillo in un video aveva definito “strano” il comportamento della vittima, che era andata a fare kitesurf il giorno dopo la presunta violenza, denunciandola otto giorni dopo.

Già in udienze precedenti gli avvocati della giovane donna avevano parlato di vittimizzazione secondaria, “come se la persona offesa che ha denunciato qualcosa di grave fosse improvvisamente sul banco degli imputati”. Le domande dell’avvocata, poi, si concentrano soprattutto sulla reazione della ragazza e su una sua presunta collaborazione al rapporto sessuale: questo accade anche perché la legge italiana definisce la violenza sessuale come qualsiasi atto ottenuto “con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità”. Anche se diverse sentenze della Cassazione adottano il criterio del consenso è ancora radicata l’idea che lo stupro preveda una resistenza da parte della vittima. Oggi sappiamo, anche grazie agli studi scientifici, che le reazioni a una violenza sessuale non sono tutte uguali e che non tutte sono in grado di difendersi, specie se hanno assunto alcool o sostanze, cosa che comunque costituisce un’aggravante nell’ordinamento italiano.

La vittimizzazione secondaria è un forte deterrente alla denuncia della violenza sessuale e domestica, visto che la si può incontrare in ogni passaggio, dall’atto della querela alla sentenza. Spesso viene descritta come un processo inevitabile nella giustizia o come una forma di garantismo, ma anche su questo la legge è chiara: secondo la direttiva 2012/29 del Parlamento europeo, la protezione della vittima è uno degli obblighi delle istituzioni in ogni fase del processo. “Come tali, le vittime di reato dovrebbero essere riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e professionale, senza discriminazioni” ed “essere protette dalla vittimizzazione secondaria e ripetuta”, in un bilanciamento tra i diritti di chi accusa e di chi viene accusato.

Dire che la vittimizzazione secondaria va evitata non è un’intimidazione né un tentativo di fare pressioni sul tribunale, ma è affermare un dato di fatto, denunciare quella che spesso è una prassi nelle aule della giustizia italiana. Per anni queste modalità sono passate inosservate o al massimo condannate a livello europeo, ma ora per fortuna anche la società italiana comincia a rendersi conto dei danni che provoca, non solo alla vittima inspiegabilmente seduta sul banco degli imputati.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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