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Basta panchine rosse: contro la violenza sulle donne servono più soldi per aiutare le vittime a uscirne

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una giornata che nasce con uno scopo nobile ma che spesso si ammanta di una grande dose di retorica: non basta dire “no” alla violenza sulle donne, non bastano panchine rosse, non bastano accorati appelli alla “denuncia al primo schiaffo”.
A cura di Jennifer Guerra
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Una donna seduta in un angolo che piange, una bella ragazza con l’occhio livido, delle mani che spuntano al buio, delle scarpe rosse su un marciapiede. Queste sono le immagini che abbiamo imparato ad associare alla violenza contro le donne. Immagini che senz’altro sono servite a sensibilizzare il nostro Paese sul tema, ma che spesso hanno veicolato un’idea distorta di cosa sia e come si manifesti la violenza di genere. Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, una giornata che nasce con uno scopo nobile ma che spesso si ammanta di una grande dose di retorica: non basta dire “no” alla violenza sulle donne, non bastano panchine rosse, non bastano accorati appelli alla “denuncia al primo schiaffo”, come se tra l’altro non ci fossero manifestazioni di violenza invisibile, come quella psicologica o economica.

Il problema di questo tipo di racconto del fenomeno è che isola l’episodio violento da tutta un’altra serie di circostanze, non solo quelle che lo precedono come le minacce, gli insulti o l’umiliazione, ma anche quelle che lo seguono. Cosa succede a una donna nel momento in cui decide di uscire da una situazione di violenza domestica? Conoscere la risposta a questa domanda non è affatto scontato, anche perché molte persone non sono nemmeno a conoscenza degli strumenti che sono a disposizione delle vittime. Secondo l’indagine Istat del 2018 “Gli stereotipi e l’immagine sociale della violenza”, il 64,5% della popolazione consiglierebbe a una donna che ha subito violenza da parte del proprio partner di denunciarlo e il 33% di lasciarlo. Solo il 20% la indirizzerebbe a un centro antiviolenza e solo il 2% le direbbe di chiamare il 1522.

Nel 2021, al 1522 sono arrivate 16.272 chiamate, di cui il 97% da donne. Di queste, 2.115 hanno denunciato il proprio aggressore, ma ben 9.907, il 63%, ha deciso di non proseguire. I motivi sono diversi: in primis c’è il timore di compromettere la famiglia, poi la paura del violento, ma anche non avere nessun posto dove stare. La violenza infatti non avviene in un vuoto: ci sono i figli, lo stato occupazionale, il supporto o il giudizio della famiglia di origine, l’accesso ai conti correnti. Anche se è bello pensare che basti dire “no”, lasciarsi o denunciare per uscire dalla violenza, nella maggior parte dei casi non è così semplice. Quello che succede dopo la violenza è tanto importante quanto quello che succede prima e durante, anche se spesso non vi è data la stessa rilevanza.

Quest’anno sono state introdotte diverse novità a livello legislativo sulla violenza di genere: il nostro Paese avrà l’obbligo di stilare un piano antiviolenza nazionale con cadenza triennale, finanziato ogni anno con 5 milioni di euro e non più con importi decisi a seconda delle circostanze. È stato inoltre attivato un osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sono stati decisi dei requisiti minimi per il finanziamento dei centri antiviolenza e dei centri per uomini maltrattanti. Tuttavia, come sottolinea il rapporto di ActionAid “Diritti in bilico”, poco è stato fatto per promuovere l’indipendenza economica e sociale delle donne, un passo fondamentale nel percorso di fuoriuscita dalla violenza.

Dal 2015 al 2022, l’Italia ha speso complessivamente 157 milioni su questo fronte, di cui 20 per misure di sostegno al reddito, 124 per interventi di reinserimento lavorativo e 12 per favorire l’autonomia abitativa. Nel 2020 è stato approvato il Reddito di libertà a livello nazionale, un contributo che era già stato adottato nel 2018 in Sardegna e che aiuta la donna a trovare casa. Tuttavia, l’importo stanziato per questa iniziativa (12 milioni di euro) si è rivelato insufficiente: i soldi bastavano per 2500 persone, ma all’Inps sono arrivate più di 3000 richieste, anche se le donne che ne avrebbero bisogno sono circa 21mila. Per il momento, le beneficiarie sono soltanto 600. L’introduzione del reddito è stata accolta positivamente, perché non è necessario presentare l’Isee né rendicontare le spese, ma la cifra erogata (400 euro al mese) è bassa per garantire l’autonomia abitativa e le spese per i figli; inoltre, la domanda può essere presentata soltanto nel proprio comune di residenza, escludendo ad esempio le richiedenti asilo senza permesso di soggiorno, ma anche le donne che per motivi di sicurezza si sono trasferite in un'altra città o non possono tornare nel proprio comune.

C’è poi l’enorme problema del lavoro. In un Paese con uno dei tassi più bassi di occupazione femminile in Europa e in cui molte donne non hanno mai avuto un impiego nella loro vita, trovare o mantenere un lavoro in una situazione di vulnerabilità come quella della violenza non è semplice. Delle donne italiane che si rivolgono ai centri antiviolenza, più del 20% è disoccupata e tra le straniere la percentuale supera il 30%. Per quelle che hanno già un lavoro, dal 2015 esiste un congedo che permette di chiedere fino a 90 giorni di assenza e, secondo l’Inps, dal primo anno di introduzione a oggi la domanda è aumentata del 2662%. Più complessa la situazione di chi non ha un lavoro. Non solo sono le regioni a gestire i fondi previsti per l’inserimento lavorativo, creando una situazione molto frammentata a livello nazionale, ma sono i centri antiviolenza a dover cercare i tirocini o le borse per donne prese in carico. Il rapporto ActionAid segnala inoltre come spesso i lavori proposti siano pesantemente influenzati dagli stereotipi di genere e non tengano conto di fattori importanti, come la qualità del contratto o la sostenibilità nel lungo periodo. “in presenza di salario basso, lavoro precario, lavoro part-time forzato, carenza di servizi per la gestione di carichi di cura, comportamenti discriminanti, l’essere impiegata non si traduce automaticamente in un miglioramento della qualità di vita e quindi in una riduzione del rischio di esposizione alla violenza”, si legge. “Al contrario, può diventare un ulteriore ostacolo alla fuoriuscita dalla violenza”.

Anche in questo caso, i fondi stanziati sono davvero pochi: 15,8 milioni più altri 89 destinati però unicamente al congedo, a cui vanno sommati i finanziamenti previsti in autonomia dalle regioni. Se questo accade è perché, sin dalla sua prima attuazione, il piano antiviolenza adotta una prospettiva emergenziale: una volta che la donna è messa “in sicurezza”, è come se fosse tutto risolto e la violenza sparisse. Ma la violenza continua, perché è insita in un sistema che non valorizza il contributo delle donne, delega loro il lavoro domestico e di cura, sminuisce i loro desideri e le loro aspirazioni. Finché continueremo a raccontare la violenza soltanto come un livido su un occhio, non solo continueremo a svalutare la violenza invisibile e istituzionale, ma non ci sarà la volontà di lottare per garantire l’autonomia di chi esce dalla violenza. L’augurio è che in questo 25 novembre pieno di retorica e anime belle che non toccherebbero nessuna nemmeno con un fiore, ci si ricordi che le donne non sono soltanto vittime, ma persone con bisogni e diritti che continuano anche quando le ricorrenze sono passate.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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