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Andreotti e la Mafia, tra sentenze, sospetti e verità mai svelate

La morte di Giulio Andreotti riporta a galla una pagina mai del tutto chiarita della storia italiana: quella dei rapporti fra lo Stato e la Mafia. Dai rapporti con i boss siciliani all’omicidio Pecorelli, passando per il “famoso” bacio a Toto Riina.
A cura di Redazione
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La morte di Giulio Andreotti ha riaperto una delle pagine più oscure della storia recente del nostro Paese: quella dei rapporti, mai chiariti fino in fondo, fra le istituzioni e la cirminalità organizzata. Tensioni che trovano nel legame per certi versi inestricabile fra settori dello Stato e l'organizzazione mafiosa la testimonianza più emblematica. E la figura di Andreotti ne è diventata un simbolo, oscuro e confuso come le stesse vicende.

Di certo c'è solo l'iter processuale affrontato dal sette volte Presidente del Consiglio, presente praticamente a tutte le udienze che lo hanno visto coinvolto. Andreotti è stato infatti sottoposto a giudizio per associazione a delinquere, con un processo celebratosi a Palermo. La sentenza di primo grado lo assolse completamente "perché il fatto non sussiste", mentre in Appello i giudici si orientarono in maniera diversa. La nuova sentenza, poi confermata dalla Cassazione, distinse il giudizio in due fasi, tra i fatti precedenti il 1980 e quelli successivi. Per la prima fattispecie, i giudici stabilirono che era concretamente ravvisabile "il reato di associazione a delinquere fino alla primavera del 1980", valutando tuttavia che fosse intervenuta la prescrizione. Per i fatti successivi a tale data invece, i giudici assolsero l'imputato con formula piena.

Va sottolineato che a ricorrere in Cassazione furono sia la difesa che l'accusa, segno evidente di quanto Andreotti considerasse infamante una sentenza così costruita. In effetti, a leggere le motivazioni si capisce come i giudici parlino senza mezzi termini di "concreta collaborazione" fra il politico democristiano ed esponenti di spicco della Mafia, come l boss Stefano Bontate e Salvo Badalamenti, nonché con i suoi "referenti" Salvo Lima, Vito Ciancimino ed i cugini Nino e Ignazio Salvo. La Cassazione nei fatti ha infine confermato questa impostazione della Corte d'Appello, rendendo chiara la fattiva collaborazione dell'ex Presidente del Consiglio con esponenti di primo piano dei mandamenti sicialiani.

Discorso diverso invece per altri due "marchi infamanti" che hanno contraddistinto la vita politica e pubblica di Andreotti: il bacio a Totò Riina e l'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Del primo parla il pentito Di Maggio, ma non ci sono affatto conferme di quel gesto che sarebbe avvenuto in casa dei cugini Salvo. Anzi, come racconta Bolzoni su Repubblica, "Un milione di pagine di indagini trasformate quasi un dettaglio, tutto il dibattimento concentrato su quel «bacio», su una suggestione. Fu il grande errore di Caselli e dei suoi procuratori: credere a Di Maggio, farlo diventare un pilastro dell' inchiesta. Il mafioso, catturato misteriosamente e poi misteriosamente pentitosi, fece implodere piano piano l' impalcatura accusatoria. Alla fine si scoprì che da collaboratore di giustizia era ancora qui in Sicilia a spadroneggiare, coperto da reparti speciali dei carabinieri".

L'omicidio Pecorelli è invece una pagina ancora misteriosa della storia italiana, proprio perché investe quel legame fra mafia, servizi segreti deviati, istituzioni e gruppi eversivi che ha caratterizzato un'intera stagione italiana. Per l'omicidio del giornalista (che era probabilmente a conoscenza di alcuni particolari del sequestro Moro) Andreotti fu assolto in primo grado, assieme al presunto killer Carminati (che appartenava ai Nar), ma fu poi condannato a 24 anni nel processo di appello, prima che la Cassazione annullasse quest'ultima sentenza senza rinvio, confermando il primo grado.

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