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Opinioni

Anche stavolta la discussione sul campo largo contro la destra ha fatto male solo al centrosinistra

A che è servita la discussione sul campo larghissimo contro Meloni? A dividere il centro, a inquietare gli elettori del Pd e a destabilizzare ulteriormente il Movimento 5 Stelle. Un successone.
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Come accade più o meno ciclicamente da qualche anno a questa parte, recentemente si è tornati a parlare di campo larghissimo contro la destra. Essenzialmente, si tratterebbe di impostare una grande coalizione, da Renzi a Fratoianni, passando per Conte, Schlein, Bonelli e forse qualche altra formazione minore, con l’obiettivo di contrastare elettoralmente Giorgia Meloni. È una discussione ricorrente, che finora ha prodotto migliaia di articoli di giornale, una caterva di polemiche e altalenanti risultati nei suoi esperimenti concreti a livello locale.

Ci sono però delle peculiarità nelle riflessioni di fine estate sul campo larghissimo o come si vuol chiamarlo, che meritano una certa considerazione. In primo luogo, le tempistiche, che sono piuttosto strane. Parlare di alleanze politiche non è mai semplice, perché comporta sempre “tensioni” all’interno dei gruppi dirigenti e tra l’elettorato di riferimento. Detto in altre parole, un* leader di partito non parla volentieri di alleanze future, se non è strettamente necessario o se non intravede una qualche opportunità. Che senso ha alimentare la discussione in questo momento?

Uno dei primi a porre sul tavolo la questione è stato Matteo Renzi, il quale è da tempo convinto che il governo Meloni non durerà tanto a lungo. Il ragionamento dell’ex presidente del Consiglio è semplice. Occorre farsi trovare pronti, perché la maggioranza è destinata a implodere a causa di contraddizioni interne (la distanza sempre più ampia fra Salvini e Meloni, la posizione complessa in cui si trova Tajani), del possibile fallimento delle riforme istituzionali promosse, dei limiti della classe dirigente (di cui il caso Sangiuliano è solo l’ultima manifestazione lampante) e di fattori esterni più o meno chiari (dal ruolo della famiglia Berlusconi alle scelte strategiche dei nostri partner europei). Che questa lettura sia corretta conta il giusto, diciamo così.

Il punto vero è che, se anche l’attuale maggioranza dovesse sfarinarsi, l’opposizione non sarebbe in grado di mettere in campo un’alternativa credibile né in caso di crisi di governo, né tantomeno di ritorno alle urne. Il consenso di Meloni nel Paese resta molto alto, mentre i partiti di centrosinistra sono divisi sulle forme e i modi con cui fare opposizione. Non solo, perché i singoli leader si detestano o si sopportano a malapena, dopo anni passati a farsi la guerra e veti più o meno espliciti anche nelle alleanze sul territorio. E i rispettivi elettorati restano piuttosto scettici, per usare un eufemismo.

Come se ne esce? Difficile dirlo, teoricamente le strade sono due: l’accordo politico o l’accordo elettorale.

Allo stato attuale, non solo non esiste una piattaforma programmatica comune, ma ci sono differenze profonde nella stessa idea di futuro tra le anime dell’opposizione. Su molti temi c’è addirittura una netta incompatibilità tra la visione liberal-democratica di Renzi e il posizionamento radicale di Schlein e Conte; su questioni essenziali, pensiamo alla politica estera, c’è addirittura un’alterità sostanziale fra la linea dei centristi e quella del M5s e della Sinistra; il tutto senza contare le iniziative in corso su Jobs Act, premierato e Autonomia. Semplificando: se il discrimine è sui programmi, la discussione nasce già morta.

E, in effetti, così è andata finora. Le polemiche sono servite ad animare qualche Festa de l'Unità, ad accelerare la disgregazione di Azione, ad aggiungere sale sulle ferite dei Cinque Stelle e a riportare Matteo Renzi al centro per qualche settimana. L'unico risultato sembrerebbe essere qualche timido avvicinamento per le Regionali, per provare a invertire un trend negativo per il centrosinistra.

Resta dunque solo l'idea dell'accordo elettorale, che non sarebbe neanche una novità per il panorama politico italiano. Una grande alleanza contro la destra di Salvini e Meloni, dunque. Ma per fare cosa? È questo l'ulteriore elemento di debolezza dell'intera discussione. Perché, a ben guardare, non solo non vi è una comunanza d'intenti su "cosa fare" eventualmente dopo, ma non vi è neanche una valutazione univoca sull'operato del governo. Senza scendere nel dettaglio dei tanti abboccamenti centristi con la maggioranza o delle enormi responsabilità del M5s nell'aver contribuito a creare il clima ideale per le scelte nefaste su sicurezza e immigrazione, il vero problema è rappresentato dalla vicinanza politica alla destra di parte delle formazioni che dovrebbero animarlo questo campo largo.

Qualche giorno fa Gordon Brown, non certo un pericoloso estremista di sinistra, analizzava sul Guardian le strategie possibili contro l'estrema destra europea, condannando quello che definiva l'"appeasement" dei "so-called moderates". E concludeva: "Prima o poi, il veleno dell’estrema destra dovrà essere contrastato con un’agenda progressista focalizzata su ciò che conta di più per le persone: lavoro, tenore di vita, equità sociale, per colmare il divario moralmente indifendibile tra i ricchi e i poveri". Ecco, stranamente questi due passaggi si addicono alla questione italiana: nel campo larghissimo non solo si troverebbero gruppi responsabili dell'appeasement nei confronti della destra (i 5 Stelle ci hanno governato direttamente, il Pd in grosse ammucchiate, Iv e Azione ne condividono scelte essenziali), ma anche leader che non condividono affatto né l'agenda progressista né basilari principi di uguaglianza e giustizia sociale su cui costruire un'alternativa.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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